iPad, il libro, il terremoto

Febbraio 19th, 2010

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antonio marchetti l'aquila

1.

iPad, tre vocali prima dell’iPod; qualche salto di scala  rispetto all’iPhone 3G ma non è la somma tra i due. È la “cosa”. Il video di presentazione su apple.com ne vede l’uso domestico, seduti in poltrona nel living room. La sua maneggiabilità non prevede in effetti un uso nomade o onde road. Si ritorna a casa, nei luoghi di lavoro, nel confort di un interior. Il mondo è nelle nostre mani, stando fermi. L’oggetto è  portatile come un quaderno moleskine ma bisogna pur fermarsi per scriverci sopra. Il tablet è un moleskine multimediale che ci consente anche la lentezza dello scrivere e del disegnare. Bisogna vedere chi lo usa. Oggetto intelligente per persone intelligenti. Vedremo. In Italia si leggono poco i giornali e libri e forse per la maggioranza l’iPad è troppo.

2.

Circola l’idea, per risollevare le sorti del libro e della lettura, di distribuire gratuitamente i libri a scuole, carceri e ospedali.

L’idea è alquanto stupida. Se c’è un modo per svalorizzare qualcosa è la gratuità. Ogni cosa ha il suo costo ed il libro ha il suo. Piuttosto sarebbe ora  di farla finita con la rincorsa degli sconti dei libri; meglio sarebbe offrire un prezzo già più basso in partenza. Non mi va che un libro che ho acquistato un mese fa ora è in vendita scontato al 25%, così come non mi va l’immediato passaggio in edizione economica; si faccia subito l’edizione economica insieme a quella meglio rilegata con la carta migliore (si fa per dire ormai è tutta chimica) e con un corpo tipografico almeno 12, non dico 14 – tanto ormai quasi tutto è in stampa digitale.

Ma nonostante il lamento del lettore che vede scadere la qualità “tipografica” e di “confezione” del libro rimaniamo convinti del fatto che i  libri non si danno gratis, i libri si comprano, ci deve essere un’azione, una scelta. La gratuità alimenta la sprezzatura, ne è complice.

Un giovane che acquista un libro inizia un percorso emancipatorio. Certo, se vive in una casa ove non ci sono libri  ma solo sterco televisivo sarà difficile. E infine, quali libri si intendono distribuire gratuitamente? Chi li sceglie? Chi ci guadagna? Quali case editrici? Quelle dell’imperatore pornopop?

3.

Il 14 aprile dell’anno passato ne avevamo scritto qualcosa: http://www.variosondamestesso.com/2009/04/14/abruzzo-terremoto-rimozione/

L’Aquila. I cittadini e le loro istituzioni territoriali sono stati via via derubricati.

Li abbiamo visti, in questi mesi, il Sindaco dell’Aquila e la Presidente della sua Provincia come spaesati, a volte smarriti. La macchina del “fare” li ha spiazzati, hanno un potere di coordinamento e di gestione esiguo. Il Presidente della Regione, come tutti i miracolati dell’imperatore pornopop, oltre non può e se proprio dovesse protestare con il governo prima telefona per concordarne i toni. C’è poi un magistrato, disincantato, con scarsi mezzi, che pazientemente indaga sulle illegalità di ieri e di oggi. Per il resto la città è doppiamente fantasma.

Lo stato d’eccezione messo in prova a L’Aquila vuole essere esteso quale modalità di governo.

La tettonica a zolle dell’esistenza.

Febbraio 11th, 2010

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antonio marchetti pubblico.

Le microconflittualità, gli inciampi di relazione di ogni giorno, la piccola tettonica a zolle della nostra esistenza. Tutto questo non abbiamo tempo di elaborare, spesso non ne abbiamo neppure voglia, mentre molti, che vivono nel buio dell’ignoranza, non sanno neppure di cosa si parli. Un professore che dice alla madre che suo figlio/a non ha talento commette un crimine.

1. Il genitore è insicuro e consapevolmente incapace, delega alla scuola quasi tutto.

2. Il genitore non ama essere restituito allo specchio e odia l’insegnante,  quindi cercherà strade per metterlo in difficoltà, scaldando gli avvocati in attesa di un appiglio.

3. Il figlio/a senza talento si presenterà accompagnato/a dai genitori per protestare contro il talento  a lui/lei non riconosciuto, anche se tra qualche mese andrà a votare, maggiorenne,  godendo dei diritti dei cittadini.

Tra appena un anno il senza talento non potrà presentarsi dal datore di lavoro accompagnato dai genitori per qualche protesta. Per queste cose ci sono forme costituzionali che regolano le relazioni tra adulti.

4. Grave perdita di tempo sottratta a chi ha talento. Ma oggi il tempo dei senza talento occupa sempre più spazio mentre qualche genietto se la passa male.

5. Per molti formatori (si fa per dire) i senza talento fanno comodo. Non avendo talento loro stessi possono paludarsi e rendersi invisibili ed essere persino amati dai loro allievi con il talento del non-talento.

6. I genitori rassicurati da formatori non talentosi sono felici, e si avviano sulla strada del divorzio e delle depressioni. Anoressia e bulimìa oggi colpiscono più giovani madri che le loro “figlie” (qui il genere è quasi assoluto).

7. Conosci una madre e capirai tutto del figlio/a.

8. Conosci un figlio/a e non capirai nulla della madre.

9. Il genitore che parla troppo scambia il formatore del figlio/a con lo psicanalista.

10. Solo gli insegnanti di religione non hanno microconflitti né con gli allievi e tanto meno con i loro genitori. Eppure abitano luoghi oggi molto sensibili. Questo fa pensare (solo i talentosi).

Giorgio Diritti. “L’uomo che verrà“. Ma il grande regista già c’è.

Febbraio 4th, 2010

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antonio marchetti country

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Sapevo di andare a vedere un grande film. Dopo quel capolavoro de “Il vento fa il suo giro” – un film ove mi parve precipitassero in forma contemporanea la teoria mimetica e persecutoria di René Girard – non potevo dubitare di Giorgio Diritti e di questo suo secondo film, “L’uomo che verrà“. Anche qui lingua intrusa, comunitaria; è la lingua di terra, la lingua materna, il dialetto. Le didascalie segnano la nostra distanza (dalla terra e dalla comunità ancorché dalla lingua). La storia la viviamo attraverso gli occhi di Martina, una bimba di 8 anni che non parla, parlano gli altri, gli adulti. Che l’infanzia abbia in sé risorse impensate e sottovalutate ce lo dimostra la vita attiva e la concretezza di Martina, con la sua capacità di andare oltre il dolore, attivando potenzialità salvifiche, per sè e per l’altro, che la spingono a farsi carico di una totale catastrofe e della  scomparsa di un mondo (del mondo). La vita di comunità di quel 1944 che ci viene raccontata rende quasi incommensurabile lo spazio che da essa ci divide mentre la narrazione di un evento indicibile (affidato a chi non può parlare) come la strage di Marzabotto riapre ferite mai emarginate chiamandone altre più vicine, presenti e future.

L’umano appare volgendo le spalle ormai alle ideologie ed alle narrazioni di fondazione sottraendosi ai doppi: risentimento-redenzione, colpevole-innocente, carnefice-vittima, condanna-perdono. Nella rappresentazione del “qual’è”, l’evento appare ancor più feroce, proprio nel ritirarsi di una soggettività critica. Ma se guardiamo il film con gli occhi di Martina, se siamo cioè in grado di tornare alla nostra infanzia, una soggettività dunque perduta, la storia ci apparirà forse miniaturizzata e ingrandita al contempo ma piu “reale” e terribile.

Abbiamo un grande regista italiano; suonerà retorico ma che importa, ci piace dirlo.

Le risposte del Direttore di Flash Art

Febbraio 1st, 2010

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cansano memorial

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Caro Marchetti,

lascio a te le riflessioni e i giudizi che ritieni più opportuni sull’arte, il mondo, Flash Art. Ci mancherebbe altro.

Una cosa però vorrei precisare: nella mia rubrica LETTERE AL DIRETTORE, non cestino mai alcuna lettera (come invece tu hai adombrato). Tu hai la prova che l’abbia fatto? Certo, talvolta evito di rispondere a richieste di giudizi sulle proprie opere, per non aprire un terreno paludoso ma soprattutto noioso e di nessun interesse. Per il resto pubblico tutto, anche gli insulti e punti di vista più feroci e indiscriminati. Al punto che sono anche incorso in qualche vicenda giudiziaria per aver pubblicato qualche lettera non proprio serafica.

Se tu hai la prova che io abbia cestinato o censurato qualche lettera, io sono qui, a confortarti con prove. A meno che (sai cosa è internet e quali problemi a volte pone) non l’abbia ricevuta. La sola cosa che con i miei collaboratori abbiamo fatto è stata quella di far rispettare la lunghezza; dunque da una lettera di tre cartelle abbiamo dovuto (ahimè!)sintetizzarla a 15-20 righe. E ti assicuro che non è un esercizio divertente. Ma per il resto non mi risulta di aver mai cestinato qualcosa. Anche perchè, dovresti saperlo, a tutto c’è una risposta. Talvolta viene bene, altre volte meno.

Buon lavoro.

Giancarlo Politi

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Apprezzo la solerzia e la volontà di chiarimento del Direttore, un uomo che viene da lontano, di grande esperienza, e che conosce molte cose che a noi sfuggono. Mi sarebbe piaciuto se avesse commentato anche la seconda parte del mio articolo.

Mi colpiscono termini come prove, vicenda giudiziaria, censura.

La risposta è una richiesta di esibizione di prove, come se si fosse in qualche modo introiettata, più o meno inconsciamente, un fumus persecutionis che annebbia la semplice dialettica o una geografia “liberal” sull’arte e sul suo sistema. Perchè dovremmo esibire prove in un articolo, come si diceva il secolo scorso, di “costume” (con accezione antropologica)?

Comportamento molto “italiano” da parte del Direttore.

Comprendo le sue precisazioni. Tuttavia si spostano i contenuti del nostro articolo su un piano non-culturale e autoreferenziale, addirittura  autodifensivo in assenza di un attacco.

“Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”, scriveva Elias Canetti.

In questo caso il direttore di Flash Art ha “schivato” il problema.

Il libro di Canetti si intitola “Potere e sopravvivenza”.

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Non so a cosa alludi. Se a questo passaggio che accludo lo ritengo una tua (legittima anche se errata e provinciale) interpretazione. Da sempre e ovunque mi batto contro qualsiasi politica per una autonomia della cultura (e dell’arte, ovviamente), mentre in Italia da sempre viviamo una totale eteronomia e dipendenza politica. Chi mi conosce sa bene quanto osteggi, situazionisticamente, la politica, che dal dopoguerra ha tessuto una ragnatela ormai indissolubile attorno a noi. Poichè tutte le nomine in Italia sono politiche (ma proprio tutte, dalla Biennale alle bocciofile) non capisco perchè accanirsi contro la nomina politica di Bellini, che tra l’altro, dal punto di vista qualitativo ritengo la migliore della piazza. Ma nessuno si scandalizza della Quadriennale, Biennale e tutti i musei italiani. Macro, Maxxi, Mart, Gamec, Gam, Mambo, Man…. (e qui continua tu). Tutto qui. Il mio non è un giudizio, ma una constatazione amara di chi è costretto a subire sapendo che nulla può cambiare. La mia lotta personale? Come muoversi in bici a Milano pensando di eliminarne l’inquinamento…

Giancarlo Politi

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Caro Politi

ti ringrazio della tua risposta.

È vero, sono provinciale, mi sono spostato molto in Italia e ho vissuto in tanti luoghi.

Forse mi merito l’epiteto di multiprovinciale; se esiste questa definizione ti prego di concedermela.

Non era necessario tutto quello che hai scritto. Conosco quello che hai fatto. C’è una reattività sproporzionata, anche se concordo su molte cose con te.

Una cosa in comune? La bicicletta, davvero!

Ma a Milano la bicicletta tu la vivi come una lotta, io qui a Rimini semplicemente la uso.

Sai, noi provinciali riminesi, come quelli di Ravenna e Basilea.

Forse sei tu che vivi nella provincia dell’Europa.

Io non alludo a nulla oltre a quello che scrivo. Ma scrivo a volte in uno stile inattuale, che può creare equivoci, ma non rinuncerò mai alla libertà del dire. Spesso sono gli altri, prigionieri di un linguaggio claustrofobico ed autoreferenziale, che  non riescono a leggere un linguaggio diverso.

Spero che tu leggerai qualche volta: www.variosondamestesso.com.

Per il resto mi ha fatto tanto piacere comunicare con te.

Mi sento onorato, credimi, di  avere un polemos con te.

Caro Marchetti,

un chiarimento ad uso personale. Quando io adopero il termine “provinciale” alludo non tanto a una connotazione geografica ma culturale. Di colui cioè che vive la cultura un po’ idilliaca della provincia o periferia (che io invidio a chiunque ed è ciò che vorrei vivere). Di colui che non è costretto a misurarsi con l’arte quotidianamente. Di colui cioè che pensa che l’arte e gli artisti e il sistema dell’arte siano o dovrebbero essere una sorta di Eldorado o di Repubblica platonica. L’arte, gli artisti, il sistema dell’arte riflettono con estrema velocità e durezza e spesso tragicità, i mali, le aberrazioni, le crudeltà, le deviazioni della società. L’arte è lo specchio fedele, spesso anticipatorio, del malessere della  società e della vita. Pertanto immagina dove è arrivata e dove andrà sempre di più l’arte di oggi. E Flash Art deve e vuole essere lo specchio di questa realtà. Io chiedo l’autonomia dell’arte, ma l’arte, nelle sue formalizzazioni e contenuti, non può essere autonoma rispetto alla società. Altrimenti diventa solo passatempo o semplice decorazione.   GP


Flash Art. Lettere al Direttore

Febbraio 1st, 2010

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antonio marchetti muro 1996

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Mi abbono a Flash Art ogni tanto, lo acquisto spesso in edicola. Saltare dei numeri è salutare perchè la percezione fa un respiro meno corto di quello ansiogeno del nuovo e del gossip. Saltare degli anni poi, per una rivista di prestigio come Flash Art, significherebbe entrare nel gioco affascinante delle analisi di breve o lungo periodo, a seconda dell’età e dell’intelligenza. Ma questo possiamo farlo andandoci a rileggere vecchie annate. Una storia dell’arte contemporanea degli ultimi trent’anni sarebbe impensabile senza la consultazione di questa rivista. Sarebbe non semplicemente una storia dell’arte, ma una storia sull’arte.

Delle “Lettere al direttore” in  Flash Art ne archivio diverse. Il Direttore è un viaggiatore internazionale che non ama il proprio paese, non ne ama i vizi genetici in generale mentre per quelli specifici dell’arte contemporanea l’assenza d’amore si trasforma spesso in sferzanti invettive.

Il Direttore non ama le scuole d’arte i licei e le accademie.

Ci sono molte verità, crude e ciniche (spesso è una maschera) nelle “Lettere al direttore”.

C’è sempre una vittima mentre il Direttore è il carnefice. Ad infilare la testa nella ghigliottina sono gli stessi lettori mentre il Direttore sceglie quelle lettere che rendono facile il mestiere del boia. C’è una reciprocità, nel tempo piuttosto ripetitiva, in queste lettere. Inoltre aleggia aria poco nuova, venticello anni Settanta del secolo scorso ove si praticava la crudeltà dell’arte.

Nell’universo del Direttore si salvano gli “amici”, gli ex amici in osservazione, i manipolabili, coloro che hanno fatto scelte museali compatibili con la rete di amici e sempre funzionali alla rivista (spesso agli amici vengono riservate critiche molto vellutate anche quando le loro sciocchezze paiono oggettivamente enormi), e via dicendo. Che tutto ciò sia poco italiano stentiamo a crederlo.

La maschera internazionale cade di fronte agli stessi vizi che denuncia.

O forse è globale ormai anche questo.

Che cos’è un padre?

Gennaio 28th, 2010

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antonio marchetti patrimonio

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Che cos’è un padre?

È colui che viene dopo.

In che senso?

Nel senso che non può competere con la fase nutritiva e  protettiva della madre e di conseguenza il padre “dovrebbe” intervenire quando si ha un progressivo distacco del figlio da tale rapporto di dipendenza simbiotica.

Quando si ha il distacco dalla madre?

A volte mai, spesso ad età molto adulta. Nei casi di separazione dei genitori il rapporto con la madre si è materializzato in forme poco naturali e spontanee, direi distorte.

Perchè?

Perchè sulla donna campeggia l’aura sacrale della maternità che spesso viene giocata fuori tempo massimo. È un ruolo che a volte la donna assume andando contro se stessa e le proprie libertà, ne è come risucchiata. Oggi questa contraddizione raggiunge livelli massimi. Chiederei invece: cos’è una madre?

Le ripeto allora  la domanda, cos’è un padre?

Un padre è anche colui che accudisce i figli, ma in forme diverse.

Diverse in che senso?

Nel senso temporale e funzionale. Il segno paterno spesso si rivela nei tempi lunghi mentre nella cura filiale vengono soddisfatti da parte paterna dei bisogni che non potranno mai competere con il femminile.

Quali bisogni ad esempio?

Quelli della “differenza” per esempio o dell’autonomia. Può sembrare un paradosso che un pensiero della “differenza” (un “agire” della differenza), il cui spazio teorico è stato per decenni occupato dal genere femminile, possa  oggi abitare la mente e il comportamento degli uomini, dei padri. Purtroppo tali caratteristiche di genere vengono come annebbiate nel rapporto di coppia, consumate dal sempreuguale o nella rincorsa affannosa di una “tenuta”. Dico purtroppo perchè, altro paradosso, è nella rottura del rapporto dei due che il terzo, il figlio, si staglia e avanza con forza.

Il rapporto filiale sembra chiarirsi, nelle reciproche identità, quando due genitori si separano? Cosa accade a questo punto?

Accade che le verità di ciò che siamo vengono smascherate davanti ai figli. Non conta la cultura o il grado di sofisticata civiltà che esprimiamo nella vita activa. Conta invece quanto siamo resistenti al retaggio regressivo e istintuale che irrompe nell’emergenza che la nostra intellettualità, in tempo di pace, distribuiva in eleganti propositi verbali.

Come agiscono allora le differenze nella formazione dei figli in questo caso?

Formazione, bella parola. L’ho sempre preferita alla parola educatore. Formatore era una parola che usava Pasolini. Parola che ricorda le mani e l’argilla. Parole che vestono la nostalgia ed il perduto. Ogni genitore, oggi, deve fare i conti con il perduto, con quel qualcosa che perdiamo ogni giorno ormai. Mi riferisco a genitori pensanti e maturi, evidentemente non ad una maggioranza.

Il femminile oggi oscilla tra appropriazione e rancore che a volte si trasformano in vendetta e manipolazione. Ripeto, è quello che eravamo prima del rapporto di coppia a riapparire; se qualcosa prima non era ben registrato e chiarito l’attrazione del caos aumenta.

Il figlio diventa in questo punto critico il piano geometrico ove proiettare le proprie identità. L’identità femminile agìta sulla “formazione” dei figli,  in questa fase storica italiana, è frantumata in tante porzioni di specchio che si allontanano dall’unità. Oggi una grave responsabilità spetta alle madri.

Quale?

Quella di saper scomparire. Di praticare il distacco, cosa che riesce più naturale all’uomo, è evidente. Il figlio viene fuori dal corpo, l’uomo ne è originariamente spettatore, distaccato. Ma se l’uomo in qualche modo ha recuperato il distacco accostandosi in forme affettive e “corporali” la donna sembra vivere una frantumazione identitaria che al momento della relazione con il figlio potrebbe andare a pescare in scenari pre-culturali e tribali che si vanno molto spesso  ad aggiungere al rancore verso il maschio poco dominante o deludente.

Questa sua analisi potrebbe risultare pericolosa addossando alla donna un carico pesante e quasi un destino. Una riedizione di Otto Weininger con il venticello del politicamente corretto.

È vero, c’è questo rischio. Non dimentichiamo che la “cura” per il femminile si estende spesso per più generazioni. La donna si fa carico, da figlia, dei genitori anziani. Gli uomini sono sfuggenti o aiutano nelle forme che gli sono proprie. Ma il femminile cura nel corpo del malato, del genitore anziano. La relazione con il corpo, luogo da cui si proviene e in cui precipitiamo nel dissolvimento, è una sensibilità esclusivamente femminile.

Perchè il corpo sembra essere competenza della donna, anche nelle forme di disfacimento?

Non vedo differenza tra l’esibizione erotica del corpo femminile, nella sua vendita mediatica, e l’accudire una madre malata senza più dignità di persona. Da un certo punto di vista la vita “corporea” della donna spinge verso comportamenti diversi dall’uomo, visto che questo universo è a lui estraneo. Ma quando l’uomo tenta di accorciare il distacco pare essere rigettato nel dominio antropologico del femminile materno.

Ripeto, viviamo un periodo di grave regressione culturale ove il femminile, che prima in qualche modo aiutava l’uomo a crescere, è precipitato in una preoccupante distonia. E l’uomo dovrà crescere da solo. Per i giovani uomini, poi, vuol dire crescere senza la madre.

Può chiarire meglio questo ultimo passaggio?

Lei sentirà spesso donne e madri che si lamentano di compagni e figli che non collaborano o non aiutano nella vita domestica. Le donne che si lamentano dei loro uomini educano i loro figli maschi con modalità che riproducono le caratteristiche degli maschi futuri. Il maschio è così perchè sono anche le madri a volerlo. Se veramente nel femminile poteva risiedere un giorno il cambiamento mai come oggi ne siamo tanto lontani.

Rimini. Percorsi arte contemporanea: Materia è Memoria

Gennaio 27th, 2010

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collezione Cardi-Fagnani

Un nuovo spazio espositivo a Rimini. Uno spazio aperto al possibile: mostre, libri e incontri con autori, performances, musica.

Siamo in via Serpieri, al numero civico 17. Inaugurazione davvero gremita di gente; c’era la parte migliore della città, o almeno quella sensibile alle imprese culturali originali e nuove che hanno il coraggio di mettere tenda in un deserto che, dicono in molti, sembra crescere in città.

“Materia è memoria” è il titolo della mostra inaugurale ove, evidentemente, si è voluto trasformare la congiunzione bergsoniana in un “essere” contemporaneo, perentorio, immanente.

Tre gli artisti in mostra, uniti dal tema, ma in qualche modo catturati dalla curatrice nella rete delle suggestioni e dalle tecniche con le quali hanno tradotto quell'”è” tra materia e memoria.

Due piccole tele mi hanno colpito.

Erano confezionate in quello stile irresistibile del fané e sgarbato ma posteriore all’autentico (ma dove trovare oggi l’autentico?), tendente ad una sapiente eleganza tecnico-teorica. Esibivano due immagini primarie. Nella prima un bosco, l’altra blocchi di materia geometrica,  pietre,  o forse menhir realizzati da archistars in psicoanalisi.

Penso che questo artista, e l’ho pensato subito, viva le suggestioni del Nord, nelle nuances culturali e geografiche che lascio ai vostri giochi delle “nuove ” perle di vetro.

Quel bosco, certo, rimandava ad Anselm Kiefer ma lo scapolavo per arrivare ad un libro, che conteneva l’immagine di un bosco molto importante, “tedesco”, di Kiefer. Il libro ha per titolo “Paesaggio e memoria”, l’autore si chiama Simon Shama.

Siamo, a quanto pare, in una porzione di spazio comune con il  tema di questa mostra inaugurale.

Credo che si chiami Tempo il serpente che esalta ed insidia questa mostra.

Si spera, vista la grande affluenza di pubblico, che questi artisti vendano qualche loro opera.

La “pulsione”, che la città ha esibito nel suo correre in massa all’inaugurazione, dovrà prima o poi  esprimersi – dopo naturalmente aver sgranato il rosario del bello e delle iperboli -  e decidere di mettere nelle proprie case un po’ di anima; insomma comprare qualcosa di ciò che nel rituale sembrano adorare (io consiglio i neo- menhir mentre il boschetto per un buon collezionista potrebbe risultare troppo trafficato) ma che il giorno dopo dimentica.

Bella serata. Perfetta organizzazione. Discreti aperitivi.

Da  domani tutto è in gioco e gli attori partecipanti di appena oggi dovranno dimostrare di “essere” la città,  nell’alba del giorno dopo.

Per durare bisogna custodire e curare.

L’isteria momentanea del bello (patologia che colpisce spesso gli stupidi) dovrà essere lavorata come “materia”, riportata all’immanenza primitiva  del quotidiano, per essere poi trasformata in “memoria”.

Tutto ciò che facciamo oggi è materia e memoria di domani. Proprio adesso.

La scuola di carta

Gennaio 22nd, 2010

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antonio marchetti città dipinta

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Carta, montagne di carta; circolari, milioni di circolari; avvisi, miliardi di avvisi. La scuola dell’autonomia negli ultimi anni produce carta, quale forma di comunicazione tra la Dirigenza ed il basso. Per poter leggere tutte le circolari di una sola settimana occorre un orario pari a quello di cattedra. Leggerle quando arrivano in aula significa sospendere la formazione, ma forse la formazione va intesa proprio così: leggere e commentare circolari in classe interrotte dalla lezione. Il crepuscolo dell’Impero austro-ungarico non arrivava a tanto.

Emanata una circolare tutto è a posto, lì, sulla carta; la realtà va in malora ma nel mondo di carta tutto sembra plasticamente perfetto. I termini sono lavorati al tornio dell’inutile ma nello stesso tempo ambiscono con patologica ambizione ad una forma di agire che circolarmente (appunto) riconducono sempre ad una forma di rigor mortis del sempre uguale. Le parole nuove e di tendenza, come l’uso dell’inglese, sono le nuove maschere della morte (morte della nostra lingua italiana soprattutto). L’impotenza trova nel linguaggio tecnico della circolare (una neolingua mai apparsa prima d’ora nella storia dell’occidente) un agire mortifero, un movimento cristallizzato autoappagante ove sono scomparsi gli attori autodesideranti. Il teatro della crudeltà è stato completamente evacuato.

Non sappiamo dire chi sia il soggetto scrivente della circolare. Soggetto plurale? Non diciamo sciocchezze; dopo tramonti senza colori di soggetti e pluralità meglio lasciar perdere. La circolare scrive noi, nessuno la scrive. Noi siamo la circolare, ogni mattina. Nel mondo borgesiano ove la carta geografica aveva sostituito il mondo è la circolare a sostituire non solo la realtà nel microcosmo scolastico, ma ci scrive. Che siano poi esseri umani con millenni di civilizzazione alle spalle a produrre tutto ciò, in “autonomia”, ci spinge ad un senso di serenità e di benessere in un paradiso senza più problemi.

Clandestini a Rimini

Gennaio 19th, 2010

antonio-marchetti-rimini.jpg

 

Un carabiniere e due giovani dell’esercito passeggiano per Corso D’Augusto a Rimini e spalmano nel loro passeggio, mentre guardano le vetrine dei saldi, l’immagine della “sicurezza”.

Altrove, fuori dalla città-immagine, siamo invece prigionieri del labirinto, ove tutto è possibile. L’imponderabile delle periferie “produttive” e dei nuovi centri che si spengono a tarda sera lasciano deserti notturni, di cupa e dura letteratura, volendola scrivere. Rimini va esperita con il navigatore satellitare le cui mappe vanno continuamente aggiornate se vuoi accedere a servizi, consumi, tempo libero. In due decenni lo spostamento nevrotico si è sovrapposto a se stesso conquistando nuove aree;  l’obsoleto di ieri appena post nuovo coesiste con il non finito di oggi proiettato nel futuro, tutto risolto nell’ondivago tragitto automobilistico, in un cantiere a cielo aperto di una città che non comprendiamo più, una città in cui ci sentiamo stranieri. La durezza di questa città la sentiamo noi, mentre chi viene qui per lavoro la conosce meglio, si muove meglio – per necessità e per abitudine alla durezza – in questa città così ambiguamente accogliente (a parte l’accoglienza turistica “vocazionale”). Può sembrare cinica e paradossale questa considerazione che vede negli immigrati stranieri una città più a loro misura che non alla “nostra”.

Sono loro che usano i mezzi pubblici, loro si prestano alla mobilità urbana ed extra urbana con paziente accettazione e puntuale utenza. Loro, infine, tracciano nuove mappe di geografia urbana. Ma quando diciamo “nostra” cosa intendiamo? Intendiamo, siamo sinceri,  un senso di perdita. Tutte le nostre pulsioni appropiative sono perdenti. La voce grossa neo razzista o leghista è voce irrilevante rispetto al moto epocale. Le voci razziste, insieme al perbenismo ipocrita, servono a far dimenticare che le difficoltà, ormai, saranno per tutti noi. Il problema della sicurezza in Italia sta diventando un problema di paranoia, di distonia mentale, di servilismo mediatico, di ipocrisia nazionale.

Rimini è il paradigma della trappola. Qui si è trovata una formula nuova: si pubblicizza un “bon vivre” che verrà prima o poi sanzionato. Si fa cassa. Qui puoi fare tutto, basta pagare e avere buoni avvocati. Rimini è la città degli avvocati. Chi ci vive è preso nella morsa. La nostra vita “normale” ne è stravolta, siamo irrigimentati, e cominceremo a vivere da clandestini a casa nostra.

Siamo tutti clandestini. Rimini vende tutto, contro di noi che ci viviamo, vende l’oggettistica vintage di Mussolini in tutti i negozietti di Marina Centro, per i turisti, ma contro di noi; come se commercio e fatturato fossero valori così alti da rendere i residenti inutili e desueti.

Che cos’è un Professore?

Gennaio 17th, 2010

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antonio-marchetti-bibiena.jpg

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Che cos’è un professore?

Un professore è alunno e insegnante insieme.

In che modo è alunno?

E’ alunno in quanto è in perenne ascolto dei suoi allievi e ne cattura i complessi loro codici di comunicazione.

In che modo è insegnante?

Lo è quando traduce i loro codici in forma forse inattuale ma alta, offrendo loro una possibilità di grandezza, spaesandoli dallo loro fissa e ripetitiva immanenza ipnotica, prospettandogli un “è possibile”.

Quali mezzi può usare un professore per attuare ciò che lei dice?

Tutti i mezzi dell’umano civilizzato ma devono anche comprendere tempesta e rimescolamento delle carte, forse anche durezza. Ma gli attuali modelli educativi delle famiglie italiane in questo momento difettano, o non hanno modelli alcuno. Le famiglie si autorisarciscono, attualmente, rovesciando all’esterno la propria impotenza.

Ci sono scuole in Italia ove si amministra l’esistente, ma non si forma. Cosa ne pensa? Ci sono italie diverse?

Rispondo subito sull’ultima domanda; sì, ci sono italie diverse. Un insegnante di Rosarno o di Napoli è diverso dall’altro di Parma o di Milano. Il contesto lo rende diverso. Essendoci grande mobilità geografica i professori (vorrei chiamarli ancora così) fluttuano, negli anni, in realtà diverse. Di conseguenza in alcuni casi viene meno quello che io avevo detto in risposta alla sua prima domanda. Bisogna saper ascoltare per agire, il professore ascolta il contesto.

Se si trovasse ad operare in un contesto difficile, in luoghi pericolosi ove la legalità è assente come potrebbe operare un professore se non mettendosi a rischio trovandosi, magari, davanti il figlio di un vip camorrista?

Questa domanda non ha senso. Il leit motiv della legalità e della trasmissione della cultura nelle scuole viene suonato dal Ministero, in modo particolare con le risorse economiche che esso mette in gioco. Tutte le iniziative del governo si irradiano, soprattutto attraverso le tv ed il web, nella forma di icone comportamentali che contraddicono quotidianamente ciò che un formatore dovrebbe fare: riferirsi ad un quadro condiviso.

Occorre invece ben selezionare i docenti, non più per titoli di studio e per allucinanti percorsi, ma sul campo.

Il campo vuol dire essere professori, essere accettati dagli studenti ed ottenere buoni risultati circa le capacità seduttive, attrattive, e di “intrattenimento” della performance formativa; per intrattenere bisogna essere particolarmente colti.

Questo presuppone uno smantellamento del vecchio e aprire ad un ringiovanimento del grande esercito degli insegnanti?

Al contrario. Quando andranno via i vecchi sarà l’incertezza totale. Sono già oggi i giovani insegnanti a far tornare indietro l’orologio dei diritti e della libertà. Loro, sotto la mannaia della deprivazione d’immagine e di sostanza del professore, accellereranno il processo di decomposizione. Sono giovani, sì, ma non apportano quasi nulla circa il rinnovamento e si presentano, già nell’esordio, davanti agli alunni come già vecchi perchè a loro volta ripetono, nell’assenza di pensiero. Sono precari ma la loro precarietà è anche interiore.

Se io devo insegnare solo un anno da precario non necessariamente il mio insegnamento sarà precario. Non essendoci riferimenti forti la precarietà diventa uno stato dell’essere.

La scuola e la cultura per lei sono ancora fondamentali?

Dalle pagine di De Amicis ad oggi la conformazione spaziale delle aule di una scuola è praticamente la stessa (a parte i laboratori e le pratiche trasversali). Cattedra, banchi con conseguente disposizione geometrica, naturalmente la lavagna e, ancora, le interrogazioni in piedi vicino la cattedra del professore. Questo rituale cattura vecchio e nuovo e nessuno studente ha mai contestato il dispositivo spaziale della scuola. Sinora nessun giovane “genio”, per quel che mi risulta, ha contestato mai la “forma”, che contiene l’essenza dello stare insieme. Tutti partecipano, ma senza avere la percezione della forma “plastica” della partecipazione. La cultura qui è fondamentale, per gettare tempesta su questo ordigno geometrico- formativo arcaico.

Un buon professore deve fare questo, anche rovesciare i tavoli per far vedere come sono fatti sotto, e per essere ascoltato.

Non importa se non viene ascoltato oggi.

Dopo, qualcuno di loro, con l’età, andrà a ricercare le poche luci fisse di quel breve passato, e saremo ricordati e utili.