Febbraio 10th, 2007
madonna

Ultimamente, nei giardinetti e nei cortiletti, le statue della madonna non piangono più.
Ma perché?

Minorenni

Febbraio 8th, 2007

bambino1

La parola “minorenne” riverbera una tonalità da aula di tribunale, da codice penale. Una tonalità che ha sapore giudiziario, prescrittivo; evoca procedure, dispositivi che attengono al diritto. Il debordamento comportamentale pare vi sia già inscritto.
È una brutta parola.
La parola esprime anche un limite, un confine, una specie di zona franca, un cono d’ombra che circola nella vita attiva ma che nello stesso tempo si sottrae, si mantiene sospeso.
“Minore”, in una dolcificazione giuridica, è oggetto di “tutela”, di contesa, se non di conflitto, nelle eterne lotte delle separazioni e dei divorzi.
Il “minore” sembra occupare una zona grigia alla quale, di volta in volta, viene attribuita una liquida e mutevole identità.
Al “minore” manca qualcosa, mancherà sempre qualcosa, è una non persona.
Ma il “minore” oggi si dilata, diventa “maggiore”.
Da un lato il “minorenne” è delimitato da un forte cerchio protettivo e tutelato dal “campo” che l’adulto ha disegnato intorno a lui, ma dall’altro la sua azione è pressocché illimitata, senza regole, e senza sanzioni qualora l’uscita dal “campo” dovesse renderle necessarie.
Forte delimitazione ed illimitatezza regolano lo spazio del minorenne.
Bel paradosso.
Il piccolo bambino ti guarda con occhio incredulo mentre tu gli parli con voce da paperino, con quella voce gallinacea-regressiva dove tu ti fai piccolo/a per comunicare.
Lui ha capito già che sei tu “minore”, che sei idiota, e si chiede perché mai una persona adulta deve rivolgergli la parola con quel tono falsato e cretino.
Hai tarpato l’evoluzione della specie con quella voce insopportabile da immaturo/a che sei.
Per quel bambino, che non sente mai una bella voce adulta maschia o femminile, si è già costruito il destino di un eterno, pericoloso, minore – minorenne.
Dopo può fare tutto.
Esentato da tutto.

La testa nel pallone

Febbraio 6th, 2007

gol

Eravamo quattro amici al bar.
In verità eravamo cinque, la canzone mi ha escluso; gli amici mi hanno escluso.
Mi hanno escluso per via del calcio.
Non partecipavo a tutti quei dibattiti quotidiani, alle polemiche, alla filologia delle compravendite dei giocatori, alle sottigliezze demenziali degli esperti di arbitri, allenatori, sponsor e società calcistiche. Mi sentivo escluso dai filosofi del pallone. Poi, per ogni Mondiale, mi ritrovavo solo, senza nessuno con cui commentare un gesto atletico, una squadra emergente, una strategia calcistica innovativa. Io vedevo tutte le partite, mi interessavo di nuove scuole calcistiche (e nuove Nazioni) che si affacciavano nel mondo sportivo, ricordavo nomi e reti memorabili. Ma i quattro amici al bar mi dicevano che vedevano e seguivano solo le partite in cui giocava l’Italia. Tutto il resto non contava.
Io, ignorante e ingenuo, straniero di bar, me ne stavo mattina pomeriggio e sera a guardare i Mondiali. Loro, gli ermeneuti del gol, gli esoterici della domenica sportiva, non si sprecavano, andavano al sodo, al risultato. A me interessava il viaggio, a loro la mèta; a me il gioco, a loro il risultato.
Allora ho cominciato ad emanciparmi, ho capito che gli uomini stupidi esistono anche nel mondo del calcio; forse “soprattutto” nel mondo del calcio.
Ho cominciato a credere che gli “amici” del bar sono in qualche modo “complici” delle assurdità del calcio, le alimentano, perché sono scarsi di neuroni e non capiscono il capolavoro atletico di un gol. Forse la parola “atletico” per loro è troppo, è una parolaccia, non è “maschia” abbastanza.
Mi sono ritagliato il mio gioco del calcio, lo custodisco amorevolmente e clandestinamente, non ne parlo con nessuno perché troppo pericoloso: potrei rischiare la vita.

Abitare il libro

Febbraio 5th, 2007

logo mio

Ennio Flaiano aveva indicato almeno tre modi per leggere un libro. C’è l’abitudine, la disattenzione o la noia e certi libri sono abbandonati sui sedili dei treni.
Si legge per sospetto o invidia; sono i libri “meglio venduti” che, se li avessimo scritti noi e bisognava pensarci, avremmo guadagnato fama e denaro.
«Il terzo modo di leggere un libro – scrive Flaiano – è il più semplice, ma è proprio dei grandi lettori. Si acquista con l’età, l’esperienza, oppure è un dono che si scopre in se stessi, da ragazzi, con la rivelazione delle prime letture. si tratta di non abbandonare mai “quel” libro, di lasciarlo e riprenderlo, di “andarci a letto”. Ma poiché questo modo è suggerito soltanto dai grandi autori, col tempo si resta circondati soltanto da ottimi libri. E si diventa perfidi, si arriva a capire un libro nuovo ad apertura di pagina, a liberarsene subito. E se invece il libro convince, a lasciarlo per qualche tempo sempre a portata di mano, sul tavolo o sul comodino, poiché la sua sola vista procura un vero piacere, né si teme di finirlo presto: lo scopo di questi libri è infatti di essere riletti, di farsi riprendere quando tutto va male, quando ci sembra che la verità possa esserci confermata non da quello che succede intorno a noi, ma da quello che è nelle pagine di un libro.
Tutti i grandi libri sono stati letti e continuano ad essere letti così. È più esatto dire che non si tratta di leggerli, ma di abitarli, di sentirseli addosso. Facendone il conto, ognuno trova che i suoi si riducono ad un centinaio, largheggiando. E molti di essi hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi, in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza.»

«Corriere della Sera», 27 gennaio 1972

firma flaiano

Febbraio 4th, 2007

La mia è una indifferenza appassionata.

Veltronismo

Febbraio 4th, 2007

Su Micromega anni fa Lui venne definito “epuratore omeopatico”, perché quando era direttore del grande quotidiano comunista ti licenziava o ti faceva fuori con stile e bontà.
Il veltroniano è totalitario e totalizzante, è agito da una pulsione panottica. Macchina desiderante in atto deve esperire tutto e tutto gli riesce, con facilità, leggerezza. Il suo narcisismo patologico è mascherato da equilibrio e modi gentili e si risolve nel dare sempre l’impressione che lui non faccia nulla; le cose accadono e basta, come per caso.
Il veltroniano ha capito che una volta conquistata una postazione politica ed un conseguente bagliore mediatico si può fare tutto, da Sanremo agli esercizi spirituali in monastero; quando sei opera pop in atto il mondo è materia plastica che puoi modellare come vuoi.
Fu Lui per primo ad indicarci la strada su un settimanale, ove teneva la rubrica delle recensioni dei film televisivi, e a farci capire ciò che ad una generazione era sfuggito: il fattore B, il lato B del cinema, della vita, della cultura. La sua vendetta esistenziale fu lenta ed inesorabile, lima silenziosa, psicanalisi pubblica, autorisarcimento con spettatore.
Lui, uomo afflitto sin da bambino dal fattore B, iniziava così a piegare il mondo, a rovesciarlo e a plasmarlo secondo le proprie fattezze. Il fattore B, per il veltroniano, diventerà finalmente il lato A, la canzone principale, il marginale vincente, la stupidità intelligente, Forrest Gump alla carbonara. Ci ha fatto piangere con le figurine ed ora, da performer multimediale, ci fa piangere con la sua tournè sulle lezioni di politica, appena appena plagiando Jovanotti.
Tutto questo non sarebbe possibile se non ci fosse, dentro il veltroniano, un uomo buono.
La sua bontà è come un martelletto di gomma, non fa rumore e con lentezza ed efficacia ti spezzetta le ossa e, se hai fiducia nella durata, ti impedirà pian piano di muoverti perché lo spazio è stato tutto occupato.
Lui è consigliere comunale, parlamentare, direttore di quotidiano, scrittore, sceneggiatore, doppiatore, critico cinematografico, segretario di partito, ministro, vice Presidente del Consiglio, Sindaco. E deve ancora spendersi. Nella capitale, ove governa, nelle scuole si recitano sue sceneggiature e i cittadini aspettano gli autobus in ritardo leggendo i suoi libri.
Lui ha scapolato la spuria realtà del contemporaneo, è al di là; il veltronismo è altrovismo.
Quando si saranno esauriti gli ultimi e tardivi sussulti del ventesimo secolo, e l’altro suo doppio
sarà merce scaduta, non ci sarà un partito unico ma un uomo unico: Lui; ginnicamente pronto ad accogliere il grado zero della storia; poi vivremo in un fantastico, interminabile e felice festival.

dondolo

Morte italiana

Febbraio 4th, 2007

La massa accorre per applaudire, palloncini vengono lasciati volare nel cielo, slogan e urla da stadio e poi botti e mortaretti.
È un funerale.

cofano

La Professoressa Jacobelli va in pensione

Febbraio 2nd, 2007

Lo so. Quando varcherò quella porta per l’ultima volta nessuno si ricorderà più di me.
Sino a ieri indispensabile, inserita quasi a forza in commissioni e gruppi di lavoro, utilizzata come figura di riferimento oltre le mie umane forze – facendomi dimenticare persino la possibilità di potermi ammalare – e da domani irrilevante e facilmente sostituibile con leggerezza e feroce noncuranza.
Allora forse ero sostituibile anche ieri, ho pensato, e potevo forse risparmiarmi tanta fatica in questi ultimi anni in cui ho resistito eroicamente alla pensione, almeno sino a quando la legge me lo ha consentito.
Nella presenza sei divorata, nell’assenza quasi ignorata, dimenticata.
Per me l’insegnamento di Italiano e Storia ha significato Letteratura e Narrazione, perché l’Italiano è nella narrazione, la Storia nel saper narrare.
La Storia bisogna saperla raccontare e per raccontarla bisogna conoscerla, avercela dentro. Mi sedevo, guardavo gli allievi in silenzio, spostavo le inutili cose poggiate sulla cattedra creando uno spazio vuoto, e iniziavo a raccontare, a costruire la Storia.
Il mio è sempre stato un fagottello leggero, un libro, al massimo due e un quadernetto. Vedo che le mie giovanissime colleghe oggi portano a scuola borsoni e zaini, alcune addirittura le trascinano con un carrello come fossero scese dal treno o dall’aereo; pare siano scappate di casa o, se sposate, in procinto di ritornare dai loro genitori.
Anche i ragazzi hanno le schiene piegate dal peso degli zaini e non posso fare a meno di ricordare con nostalgia quegli elastici colorati che trattenevano due libri e due quaderni, e nella testa di quei ragazzi c’erano pure latino, greco e filosofia.
Vado via nel momento in cui la scuola sta compiendo la sua grottesca fine, o forse mi piace immaginarla in questo modo adattando la realtà alla fine della mia carriera.
Alcuni colleghi, anno dopo anno, dicono che tra cinque, quattro, due anni finalmente andranno in pensione. È come una meta da raggiungere, con un danno, come posso immaginare, arrecato al quotidiano lavoro perché qualcuno dovrà pur pagare questa agonica attesa.
Si è pensionati, e precari, nella testa.
I colleghi hanno fatto la colletta e mi hanno fatto il regalo di congedo: la solita spilla.
Odio le spille.
Wanda Jacobelli

lapide roma

Febbraio 2nd, 2007

gerusalemme

Gerusalemme

Gennaio 30th, 2007

Le casalinghe sono schiave con la cittadinanza romana.

In città i vecchi muoiono e non se ne accorge nessuno.
In campagna così così.

14 Febbraio. San Valentino, la festa dei morti.

Odio teneramente i miei amici.