Filo d’arte. Ricordando Alighiero Boetti

Febbraio 20th, 2007

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L’Enciclopedia dei lavori femminili di Thérese De Dilmont, in unico volume, rilegatura inglese, al prezzo di lire cinque, forse è ancora reperibile in qualche bancarella o mercatino di vecchi libri e nostalgiche inutilità o forse nei bauli di alcune vecchie soffitte tutte da esplorare, ove il passato non passa, come è capitato a chi scrive. Il libro non era solitario; insieme cartigli arrotolati, bozzetti per arazzi, decorazioni colorate per tessuti, campionari, un diploma di onorificenza del Comune di Faenza rilasciato ad Anita Sangiorgi, riminese, fondatrice di una delle prime scuole di arte applicata in Romagna nei primi anni del secolo scorso.
Stilemi classicheggianti nelle carte disegnate o dipinte ma anche soluzioni moderniste e moderatamente geometriche ma ancora al di qua della civiltà delle macchine e della “benjaminiana” riproducibilità tecnica. «La maggior parte delle persone che apriranno l’Enciclopedia dei lavori femminili diranno fra sé che questi particolari sul cucito sono davvero superflui, al giorno d’oggi soprattutto, che la macchina sostituisce così spesso il lavoro a mano», scrive la Dilmont. La sacralità delle mani sarà imperitura: Come la fotografia non ha cancellato la pittura, la macchina da scrivere la scrittura manuale (oggi si aprono scuole e corsi di calligrafia con venticello new-age), il computer ed internet il libro, il nylon un buon paio di mutante di puro lino, le mani sembrano ancora rappresentare l’utensile primario, non c’è dubbio. L’arte contemporanea protegge le mani dentro un fortilizio innalzandole quale vessillo di autenticità. I grandi dibattiti conflittuali sul rapporto tra l’innovazione della tecnica e l’ambito estetico appaiono nel lungo periodo sterili ed inutili riproponendosi periodicamente in modo stanco e noioso.
Il futuro forse è già stato, ed è stato troppo veloce.

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Libro per signore dunque, oggi per competenti artigiane del cucito e del ricamo che tornano tanto di moda insieme alla diffusa e superficiale “nostalgia del fondamento” o più banalmente del tempo che fu. La scansione temporale del lavoro delle “signore” applicato al ricamo su tela o all’uncinetto (oltre all’applicazione diligente al pianoforte con sonate squisitamente femminili) è lenta e paziente. I giorni erano più lunghi, c’era tempo, tempo da perdere e non tempo perso. Lavoro e socializzazione perché il cucito si fa volentieri in compagnia, in umbratili salottini, linde cucine o riposanti bow-window, in pomeridiane conversazioni metereologiche, sui figli e la moda o chissà su quali incoffessabili pettegolezzi o modeste perversioni definitivamente piombate nel segreto femminino di un punto croce.
Chiacchierino si chiama un lavoro per merletto.
Libro per signore sufficientemente colte, abili con le mani ed esperte negli stili, creative nel mescolare modi e disegni con risultati originali e sempre nuovi , vere operette d’arte se non ci fosse lo stereotipo del maggiore e del minore.
Gli arazzi e i ricami proposti da un grande artista indimenticato, Alighiero Boetti, ci segnalano che sono le arti “minori” a rimescolare le carte nel gioco dell’arte, e del mercato dell’arte. «È sempre il piccolo che diventa grande», scriveva il filosofo Gilles Deleuze.
Eppure le incisioni che illustrano puntigliosamente il trattato (perché di un vero trattato si tratta, un trattato della “frivolezza”, alla francese) appaiono al nostro sguardo, martirizzato e saturo da immagini in movimento perpetuo, stranianti e spaesate; persino autonome rispetto alla didascalia ed alla loro funzionalità illustrativa ed esemplare. All’occhio estetico, un po’ démodé e stupidamente all’erta sulle marginalità, può accadere di trovare Lucio Fontana in una bordatura, Paul Klee in una rosetta ad uncinetto, Burri in un sopraggitto, e così via.
Per il resto la considerazione è tra le più ovvie: oggi non ci si sa cucire neppure un bottone. Con filo d’arte, s’intende.

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Mario Sironi.

Febbraio 20th, 2007

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A CURZIO MALAPARTE (1950-1955?)

Caro Malaparte

che avrà detto del mio lungo silenzio? Io non potrei rispondere subito alla sua lettera per questo tremendo lavoro che spesso per giorni e settimane mi rende inesistente.
E ne avevo dispiacere ma ero già malandato in salute per il soggiorno di Cortina per me una esperienza da evitare. Cominciò subito dopo il mio ritorno uno stato di salute ambiguo ed estremamente doloroso che doveva poi sboccare nella presente situazione. Ricorda la suggestione? Dopo pochi giorni che per dannata conbinazione furono di trambusto di lavoro e di fatiche che non avrei dovuto sopportare mi scoppiò nelle gambe il vecchio misterioso male che tante atroci sofferenze mi hanno fatto patire nel passato. Il primo giorno rimasi chiuso in casa, per almeno 18 ore senza potermi muovere, curare mangiare bere rispondere al telefono aprire a chi suonava. Immobile come un fachiro e gemente come un ferito. Per fortuna arrivò la mia amica che aveva le chiavi e che con la croce rossa mi portò alla clinica Columbus dove mi trovo da un mese e mezzo preda di dolori violenti e di una situazione di salute che in principio era spaventosa e ora è di una tetra e quanto mai [?] incerta aspettazione. Ma in tutto questo tempo e in mezzo alle mie sofferenze ho sempre pensato alla mia lettera morta al mio desiderio che così miseramente naufragava in un amaro soffrire che spesso non mi ha lasciato che gli occhi per piangere.
Fui tanto contento di ricevere la sua lettera!

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a cura di Elena Pontiggia.

Caro Deputato Comunista

Febbraio 19th, 2007

yomo

Caro Deputato Comunista,
abbiamo visto la sua foto alla manifestazione; finalmente con la postura che tanto sognava con nostalgia.
Il pugno alzato, la faccia con l’espressione furbetta e soddisfatta che dice: “te l’ho fatta!” (a chi?), come un bambino viziato e satollo di cibo in procinto del ruttino. Ci faccia anche un bel ruttino Deputato. Infantile, poco incline al lavoro che lascia volentieri ai lavoratori, scisso nella personalità e in attesa che qualcuno intraprenda finalmente un’analisi patografica dei politici, sotterrando l’alibi ideologico della rendita catastale; futuro pensionato da favola con il cruccio delle pensioni che lascia volentieri ai pensionati, ex ministro che ha provato il brivido delle auto blu, autisti, scorte, telecamere; Lei, Deputato Comunista, ha inaugurato una nuova maschera italiana che si aggiunge a quelle, ancora attuali, di Arlecchino e Pulcinella.
Bisognerà darle un nome.
Lei non è di sinistra, come siamo noi, cresciuti adulti e maturi immersi nel quotidiano, nel presente.
Lei lascia a noi il lavoro duro e anonimo del giorno dopo giorno, mentre Lei vive la sua eterna Vacanza Comunista.
Lei vive il domani e il passato allo stesso modo.
È un nulla stipendiato, un narcisista che vive alle spalle della storia, la nostra.
La visione ottica umana si aggira intorno ai sessanta gradi circa, e grazie alla mobilità bi-oculare abbiamo una vista di insieme.
Il suo cono ottico si aggira intorno ai quindici gradi, nonostante le sue vacanze internazionali, e peraltro il suo occhio non è mobile ma è inchiodato ad un punto fisso, posto nello specchio che restituisce la sua immagine, come nella fotografia del bambino adulto con il pugno alzato.

“Vario son da me stesso”

Febbraio 17th, 2007

giocattolo e me

“Vario son da me stesso”, Journal di arte, cultura, umanità varia, vite vissute e nuda vita; termometro della vita attiva e contemplativa, osservatorio mobile, libero e indipendente del piccolo e del grande mondo.
Diario dello sguardo inattuale. Quotidiano del malessere, della ricerca della felicità e del bello.
“Vario son da me stesso” è il piacere della scrittura, è “il piacere del resto”, dei resti.
“Vario son da me stesso” era il senso compositivo dei quadri dell’Arcimboldi.
“Vario son da me stesso” è il tentativo di uscire da se stessi per essere e riconoscere tutti gli altri possibili dentro di noi, per autopacificarsi.
“Vario son da me stesso” significa negoziare con se stessi, per automigliorarsi, prendere cura di sé.
“Vario son da me stesso” è come la malattia della pelle. È la malattia della superficie.
“Vario son da me stesso” è la psoriasi della contemporaneità, è, come dicevano gli antichi greci, la “malattia dei sani”.

Vario son da me stesso,

E pur, sì vario, un solo

Sono, e di varie cose

Col mio vario sembiante

Le sembianze ritraggo

(Gregorio Comanini, Trattati d’arte…)

costruzioni

Willem de Kooning

Febbraio 16th, 2007

de kooning

«Il 18 luglio del 1926 il piroscafo britannico SS Shelley salpò dal grande porto di Rotterdam. Scese lungo il Nieuwe Maas, costeggiando la fila di banchine, percorse il Niuwe Waterweg (il canale di Rotterdam), superò l’Hoek van Holland, la lingua di terra che dal bassopiano si protende nel Mare del Nord, e si trovò in mare aperto. Il viaggio fino agli Stati Uniti durava dodici giorni. Ben nascosto dentro la nave, accanto alle immense fornaci della sala motori, c’era un passeggero clandestino di ventidue anni, Willem de Kooning…»

Continuate voi la lettura, ne vale la pena.

Il Professore Carrisi ci preoccupa

Febbraio 15th, 2007

periferia

Il grosso problema di Salvatore è di credere alla realtà.
Ci si avvinghia ogni giorno, la frantuma in affascinanti dettagli che vede solo lui, se li porta a casa dal lavoro, continua ad analizzarli nel sonno, prigioniero dell’aula scolastica che ha ormai recintato tutto il suo tempo.
Deve crederci tutte le mattine davanti allo specchio.
Il corpo è andato per i fatti suoi, grasso e informe, lo lava di rado, la testa calva; dei denti rimane solo un ricordo.
Un tempo era magro, elegante, bellissimi capelli.
Dorme vestito su un letto che si è fatto caverna, giaciglio disordinato e primitivo ove affogare e fuggire dal mondo dormendo più tempo possibile.
Ogni giorno pensa alla morte e si rammarica del fatto che verrà sorpreso con i piedi sporchi e senza dentiera.
Chiunque si occuperà di lui gli farà violenza, guardandolo.
Non potrà controllare l'”espoosizione” della sua salma.
Assai frequentemente pensa di darsela la morte, di vestirsi bene e lavarsi, mettere in ordine la casa, lasciare sul tavolo una lettera e passare dal sonno alla fine.
Ma quando? E quale morte? Chi leggerà la lettera? Chi si occuperà di lui?
Nel frattempo la morte potrebbe sopraggiungere all’improvviso, forse in un raro giorno appena migliore.
Già, perché Salvatore pensa alla morte come attacco notturno, ma potrebbe schiantarsi all’improvviso e rotolare sul pavimento della scuola, magari in classe mentre legge ai suoi lobotomizzati una pagina di Landolfi o di Alvaro.
Il Dirigente scolastico in un memorabile Collegio dei Docenti ricorderà italianamente la morte sul lavoro, la morte sul “campo”, del nostro Professore Salvatore Carrisi mentre leggeva e commentava ai suoi allievi fedeli alcune pagine di Corrado Alvaro e Tommaso Landolfi.
Un silenzio commosso e contratto attraverserà il Collegio composto da precari e nuovi docenti immessi in ruolo ormai cinquantenni, tutti vergognosamente silenti non sapendo chi fossero tali Alvaro e Landolfi.
Pur non morendo, il Prof Carrisi, che crede nella realtà, legge anche di peggio mentre la carne che cammina entra ed esce dall’aula quando vuole, si presenta al mattino a gruppetti sparsi nell’orario che desidera, spesso femminucce stronze vestite da bambine troie inconsapevoli le cui madri tengono tuttavia nel cassetto all’occorrenza le foto della loro prima comunione, da esibire all’Italia, nel caso alla loro bambina succedesse qualcosa, siamo sempre pronti per la televisione.
Sono sempre angeli, all’occorrenza.
Nessun Collegio e nessun necrologio per una persona che già da alcuni anni è in disuso, un anno dalla pensione, sopportato come un dettaglio d’arredo sbagliato in attesa di una ristrutturazione.
Forse un telegramma, che non leggerà nessuno; che se ne sa di costui? Un telegramma al morto che non può leggere.
Ogni giorno i pensieri delle tipologie della morte danno un senso alla vita di Salvatore, che abbraccia la realtà non accettandone la sparizione.

Guerra

Febbraio 13th, 2007

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“La sopravvivenza è l’unica gloria in guerra.”

Samuel Fuller, Il grande uno rosso.

Orologio italiano

Febbraio 13th, 2007

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Comunicato

Febbraio 13th, 2007

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Si rende noto che per noi la frase decisiva nel film “Via col vento” non è Domani è un altro giorno, come comunemente si crede, ma Francamente me ne infischio.

Fellinia 4.

Febbraio 12th, 2007

mare

Le attività espositive d’arte nella città, quelle che si svolgono negli spazi pubblici, come la Galleria dell’Immagine in via Gambalunga, un tempo prestigiosa, o negli spazi che si collocano nella visibilità del nucleo storico, nella “piazza”, lasciano trasparire un’idea dell’arte molto “democratica”, impostata su un’idea sociologica e populista piuttosto discutibile che mescola confusamente, o furbamente, un concetto di creatività a cui tutti avrebbero diritto, con quello dell’esponibilità, che riguarderebbe invece il “mostrarsi”, l”esserci”, attività pulsionali anch’esse rattrappite dentro il buco psico-sociologico, oggi diffusissimo, che in definitiva si traduce più o meno nell’imperativo dal rifuggire dall’anonimato e nel desiderio di apparire: emergere dal fondo anonimo della città di provincia, del quartiere, persino del condominio, contro ogni pudore, quindi “spudoratamente”. Distonìe esistenziali che molto spesso con l’arte non hanno nulla a che vedere.
Il motivo rap è: io esisto, ci sono, io valgo, io ho diritto ad esserci, se lo fai tu lo faccio anch’io, spostati stronzo/a che ci sono anch’io.
Tutti vogliono essere qualcuno come profetizzava il grande ”idiota” del XX secolo Andy Warhol. Solo che quella manciata di minuti profetizzati dal maestro pop si allungano sconsideratamente.
La città iperrealista per eccellenza, Fellinia, per suo destino, deve soddisfare questo imperativo democratico-mediatico fatto di comparse e caratteristi d’occasione: tutti devono apparire prima o poi. Basta mettersi in fila.
Il vero Monumento a Fellini è la città stessa, che ha preso per vere le città fantastiche del “Maestro”.
Per paradosso, se tutti appaiono, alla fine sono tutti anonimi. Todos caballeros.
Non so bene come funzioni la lista dell’apparire, immagino domande in carta semplice ad un ufficio preposto ove un impiegato comunale, in assenza di scelte sulla qualità, si arrangia come può e cerca di districarsi, magari sopravvalutandosi assumendo, suo malgrado, un ruolo che non gli compete.
La presenza da alcuni anni dell’Accademia di Belle Arti in città, istituzione privata, non ha aggiunto nulla di nuovo, anzi, ha acuito e accelerato tale implosione estetico-mediatica. Le mostre degli studenti dell’Accademia invadono gli spazi pubblici più per forme pubblicitarie che per esibizione di percorsi didattici, attraverso ginnastiche prodotte da studenti post-artisti che già dopo il giorno dell’inaugurazione ripiombano nell’afasia avendo già goduto del loro esser-ci autorappresentativo.
Anche per loro una mostra, dentro spazi pur prestigiosi della città che vanno tuttavia degradandosi per la qualità espositiva – offendendo l’anima che gli edifici storici silenziosamente custodiscono non potendo reagire – hanno la durata dell’apparire. Hanno capito tutto. Studenti del primo o secondo anno espongono libere creatività e installazioni tirate su alla meglio nelle vetrine più visibili della città e hanno già consumato, virtualmente, annoiandosi, una carriera, ove tutto appare facile e gestito. Eppure così si fa loro solo del male.
O forse le carriere si costruiscono oggi proprio così, sbadigliando e operando sul vuoto, avvoltolandoci sensualmente nella sicurezza e nel benessere consumistico del “tutto ci è dato” e del “non ne ho voglia più”. Ben vengano allora i “nuovi” italiani stranieri che ci danno la sveglia.
Quest’idea socio-politica che vede l’uomo creativo rotolarsi per terra tra pennarelli e colori, invaso da un delirio espressivo che non si capisce ove venga attinto, che si è insinuata nella testa di alcuni amministratori che hanno tardivamente scoperto l’arte senza mai averla attraversata, è pienamente visualizzata nei manifesti che di anno in anno rappresentano Rimini, alcuni brutti ma che piacciono al mondo “facile” e di bocca buona.
In genere si chiede, in accanimento terapeutico, di realizzare queste opere grafiche a persone che non sono in grado di realizzarle perché svolgono altro mestiere pur essendo vip, marginalizzando così i professionisti. Per fortuna, mi pare, che per il 2006 si è scelto un artista, riminese; molto meglio così.
In mezzo a questa esplosione di creatività pubblica ci sono i privati, le gallerie, qualcuna giustamente si “ritira” nelle sue vetrine minimaliste, tuttavia stimolo di desiderio per amatori e collezionisti. Isola giusta, che ristabilisce le regole. Quelle del mercato. Naturalmente qui le velleità culturali non mancano, invitandoci a dibattiti sull’arte di Picasso e altre “novità contemporanee” dell’ultima ora.
Evidentemente tra sociologismo populista pubblico e alterità del mercato privato sembra ci sia un rapporto reciproco e funzionale, come tra il vuoto e il pieno, e le carriere percorrono strade impensate, pur di abbeverare qualche Narciso frustrato e il portafoglio di qualche finto invisibile.

neve rimini