Signor Presidente!

Giugno 23rd, 2007

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I Presidenti delle commissioni per gli esami di stato sono intelligenti? Questa la domanda che il Minghetti si pone. Non che la questione occupi più di tanto i suoi pensieri, già svagatamente feriali e dirottati a ben altro, ma la domanda non è tanto stravagante. Dunque, i Presidenti, sono intelligenti? Qualche volta, anzi raramente. Nei tanti anni trascorsi presso varie commissioni e in svariate italiche città il Prof. Minghetti di stupidità ne ha vista molta e di episodi ne ricorda tantissimi.
Una volta, in una scuola, gli esami si svolgevano su due piani ed il Signor Presidente si rifiutava di fare le fotocopie delle traccie d’esame («non è legale!») facendole trascrivere nelle varie lavagne sparse per le aule e nei vari piani. La prova iniziò dopo circa un’ora.
Laddove non vengono prescritte norme e regolamenti, e si chiede l’ esercizio del buon senso o l’applicazione della fatidica intelligenza, ci pensa il Signor Presidente ad inventarli per l’occasione; stupido, sì, ma creativo. La parola che gli trapana il cervello e che abita le sue notti insonni è RICORSO.
Quando il Signor Presidente si insedia fa sempre il suo bel predicozzo, che la sera prima ha provato sotto lo sguardo di approvazione della moglie, del marito o della mamma.
Le professoresse lo chiamano tutte Signor Presidente («certamente Signor Presidente, come vuole lei Signor Presidente, sono in sintonia con lei Signor Presidente»); per queste donne lui sarà sempre il Signor Presidente («però, l’è proprio un bell’omo sto Presidente, che ne dici Gina»), lo sarà anche ad esami finiti, anche per strada, in autunno.
La specialità del Signor Presidente consiste – ogni mattina dopo le prove finite – nella chiusura ermetica delle aule e degli armadi, avvoltolati da diverse metrature di nastro adesivo e cosparsi di timbri e firme, prestando maniacale attenzione affinchè la firma risulti eseguita per metà sul nastro e per l’altra metà sulla porta, o sull’anta dell’armadio, in modo da verificare che, nottetempo, non accadano indesiderate manomissioni. Da piccolino il Signor Presidente voleva fare il commissario di polizia o il funzionario della Stasi.
Perchè si fa il Presidente di commissione? Forse per farsi chiamare, almeno una volta nella vita, Signor Presidente. Mentre dei corsi e ricorsi della storia non conosce che i soli ricorsi.

Lo stile del Prof. Minghetti

Giugno 20th, 2007

«Professor Minghetti c’è posta per lei! C’è una circolare da firmare! La Preside la cerca!» Al mattino c’è la voce squillante di Consuelo, la bidella (collaboratrice scolastica) più gentile e amabile dell’Istituto che lavora nella reception e che appena vede il nostro professore gli lancia le novità quasi cantandole.
Senza Consuelo qui si potrebbe chiudere. A volte Minghetti ironizza con lei e le chiede: «Ma lei dove lavora?» «Alla reception» risponde lei.» «Come si chiama il giorno in cui si ricevono tutti i genitori?» E lei, pronta, «Open day!»
L’ironia ci salva. Non si capisce tanta cultura angloamericana nella scuola italiana se poi un governo va in crisi per un ampliamento di una base USA. Misteri italici.
Ma su questo non oso interrogare Miss Consuelo. La reception è un banchetto con il telefono e l’open day è una situazione dove molte mamme e pochi papà (le cui figlie solo quel giorno chiamano papy) fanno la fila in piedi perchè non vengono allestite sedie. Ciò che conta sono le parole magiche, all’italiana, alla Sordi.
«Consuelo c’è il Ministro?» «Sì – risponde lei con voce di flauto – la Preside è chiusa in presidenza ma non vuole essere disturbata, sta scrivendo alcune circolari.» Duecentosettanta comunicati sino ad oggi, da leggere e firmare, una media di tre al giorno.
Il mondo reale, appena qualche metro oltre la porta dirigenziale, viene plasmato e controllato con distanza panottica attraverso questi bollettini di guerra, raccolti dai sottoposti e distribuiti alla truppa in trincea. Il fuoco amico è inevitabile. Nessuno parla il linguaggio di quelle circolari, Minghetti ormai quasi se ne vergogna, i ragazzi non ci credono e non ci crede, probabilmente, chi lo usa. È una lingua chiusa, autoappagante ed autoreferenziale, non è usata in nessun’altra parte del globo, ma solo a scuola. È una entità parallela, Second Life, una ecumenica simulazione del mondo reale. Quella miniatura di vita che è il quotidiano potrebbe guastare la bellezza astratta di quella neolingua. Ferocemente, e di nascosto, a volte Minghetti corregge qualche virgola, qualche ripetizione (disagio giovanile quattro volte, educare sei, pertanto sette, finalità sei, si auspica tre, obiettivi da raggiungere lo inserisce lui quando non c’è scritto – quando ce vò ce vò). Ma tutti ormai hanno capito che il sabotatore è lui. È nel suo stile.

Una settimana del maggio 2007

Giugno 19th, 2007

Per una settimana siamo stati investiti da tragedie familiari in cui risuonavano, in un delirio metafisico, le considerazioni dei “vicini di casa” che consideravano gli “attori” di queste tragedie molto “uniti”.
Talmente uniti da farsi fuori.
Family Horror, non trovate?
Una martellata in testa, una pugnalata alla schiena, un massacro con futuro nascituro.
Uniti “sino” alla morte, recita l’adagio matrimoniale.
Uniti “per” la morte, osiamo correggere oggi.

Le malattie

Giugno 17th, 2007

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In questi anni ho visto conoscenti, amici, e congiunti, ammalarsi.
A colpirmi sono sempre stati gli attacchi improvvisi, imprevedibili, che lasciano le persone ancora in vita e parzialmente abili, per periodi più o meno lunghi, a seconda dei caratteri, della volontà, delle risorse segrete e insospettabili che ciascuno mette in gioco nei momenti estremi, in quella disponibilità a vivere comunque, almeno sino a quando una vita sia degna di essere vissuta.
Ma non siamo noi a rendere una vita, questa vita, degna di essere vissuta? Anche indipendentemente dalle malattie?
Certo dipende da chi ci sta dattorno, se siamo amati o meno, accuditi o trascurati, accettati o rigettati nell’indifferenza, anche se prima della malattia eravamo “qualcuno”.
Osservando le patologie e le fulminee catastrofi fisiche, impensate e imprevedibili, che si sono abbattute su persone a me care, mi sono spesso chiesto se le malattie ci assomigliano. Voglio dire che la malattia, anche quella che irrompe nella casualità di un giorno, o di una notte, forse esprime una segreta continuità con quello che siamo.
Potrei anche vergognarmi nel dirlo ma, alcuni miei amici colti da ictus o ischemia, che oggi vedo rallentati e sospesi, avevano già una certa naturale lentezza nel conversare e nell’elaborazione del pensiero e che, pur in possesso di grande intelligenza, oscillavano in una certa atonia o improvvise zone vuote del discorso che, in genere, venivano giustificate con le consuete considerazioni sul carattere: riservato, timido, insicuro.
Non posso fare a meno di effettuare un percorso a ritroso, di fronte ad una persona disabile per cause improvvise, cercando relazioni tra il prima (il sano ) e il dopo (il malato) e concludo sempre, e pericolosamente, accettando una relazione che forse ci vede malati da sempre, e che l’imponderabile, molto probabilmente, è ciò che già ci apparteneva.
Noi siamo la malattia.

Il comodino

Giugno 15th, 2007

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In un giorno nuovo ebbi finalmente un comodino.
Venne svuotato dalle vecchie cianfrusaglie del nonno, pace all’anima sua, rivestito all’interno con carta Firenze e messo a fianco del mio letto-divano di vilpelle nero. Il libro di economia domestica di mia sorella diceva che accanto al letto niente più comodini da notte, ma un tavolino basso con un ripiano per libri e riviste e con un grazioso lume. Felice di contraddire quello stupido libro io avevo invece un comodino ottocentesco tutto mio, quello che hanno sempre avuto le persone grandi, con il piano di marmo verde, un cassetto e lo sportello. Il mio altare, la mia banca, il mio magazzino e, nel cassetto, il mare: stelle marine, sassi, conchiglie e biglie colorate.
Certo non poteva competere con lo spazietto sacro dedicato a Balzac dal giovane Antoine Doinel ma, se siete di bocca buona, capirete che non potevo certo lamentarmi. Insieme al mare c’erano i miei 45 giri che prendevo da mia madre; nello sportello ove una volta veniva riposto il vaso da notte avevo sistemato il mio mangiadischi arancione insieme a Capitan Miki e al Grande Blek.
Da giovanissimi e da vecchi si raccoglie e si miniaturizza il mondo possedendone una parte troppo vasta per poi trattenerlo insieme ai ricordi.
Nel mezzo, pare, solo dispendio e insensatezza, impegnati come siamo a viverlo il mondo.

Minghetti e la rivelazione

Giugno 12th, 2007

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“La norma non lo prevede, questo non si può fare, la Preside non vuole, la Preside adesso non c’è, si legga bene il regolamento d’istituto art. 2/b, ma non ha letto la circolare numero 394 bis? Faccia domanda, io non c’entro, la legge non l’ho fatta io, messager non porta pena (o forse era al contadin non dire quant’è buono il formaggio con le pere), l’impiegata è fuori ufficio, la magazziniera è malata, forse questa settimana c’è una epidemia e non ci sono bidelli, ”
Queste in genere le frasi che nei momenti di bisogno e nelle richieste di collaborazione il Prof Minghetti si sente dire. Soprattutto nel mese di maggio, un tempo leopardianamente odoroso ed ora scolasticamente schizoide e maleodorante.
Tuttavia, nonostante tanta passione procedurale e regolamentizia le cose vanno male, anzi malissimo. Come mai? Ed ecco che al Professore apparve semplice e cristallina la verità. Il Dirigente è donna, il vice pure, tutti i collaboratori sono donne, i colleghi donne, impiegati e bidelli pure e gli allievi quasi tutte donne. Un gineceo. Le donne evidentemente sono custodi della scuola oltre che della casa.
Yes man? Una volta! Ora son tutte Yes woman, ferinamente competitive tra loro ma sotto il tacco a spillo ( o quello Valverde) della “capa” o “capessa” se non addirittura “papessa” della “permanente”. Tutte le altre in semplice “messa in piega”, piegate pur im-piegate con diritti contrattuali: io donna mi piego ma non mi spezzo tu uomo (homme rompu dicono i francesi) non ti vuoi piegare ma ti spezzi se non non ti viene un infarto prima. Per fortuna gli spagnoli dicono hombre vertical, accontentiamoci.
L’organizzazione scolastica è una struttura fortemente sessuata ed un pensiero gestionale “diverso”, della “differenza”, un po’ più creativo ed elastico non potrebbe che essere maschile, non solo metaforicamente a questo punto.
Per questi motivi, nel Collegio dei Docenti, il Professor Minghetti ha chiesto la parola ed ha proposto l’applicazione delle quote azzurre. Ma i fiocchi appesi erano tutti rosa a parte qualche insegnante di religione che vive la punizione divina di diciotto classi diciotto consigli diciotto scrutini diciotto punizioni diocesiane che non ne può più catatonico com’è e c’è qualcuno che ancora pensa che siano stati favoriti. Mamma, nonna, maestra, professoressa, dirigente, psicologa; il mondo è nelle vostre mani. Ci sarà pure un momento in cui tutto questo femminile si guarderà allo specchio? Minghetti è “diverso”, solo perchè “uomo”, ormai.

La Storia

Giugno 8th, 2007

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La nostra storia deve fare sempre i conti con l’idea di memoria.
Storia e memoria sono due cose diverse così com’è diversa la storia propria da quella degli altri.
Ma allo stesso tempo è difficile separare il proprio segmento esistenziale dalla linea più lunga che chiamiamo Storia. Ed è ancora più arduo inserire quella piccola parte che è, ed è stata, la nostra vita in quel lungo tratto ove eravamo non nati e, nello stesso tempo, non possiamo fare a meno di sentire una fortissima prossimità, una spaesata vicinanza.
Chi è nato negli anni Cinquanta ha compreso la guerra e le sue tristi conseguenze solo da adulto, indagandone i resti, i racconti, le rimozioni eppure un soffio separa questa nascita dal fungo atomico, dai Campi e dai Forni.
Questa insensata vicinanza, che proietta il nuovo nato con la sua culla di cenere verso il futuro, ci rimane tuttavia attaccata e prima o poi esibirà una durata più omogenea perché il tempo, quanto più tenderà a dilatarsi, renderà quel trancio di vita breve, sempre più breve, sino a farci confondere storia e memoria.
All’insensatezza si accompagna la trasfigurazione, dovuta alla non simultaneità con i quali si vivono gli eventi, ma anche all’ignoranza, a quel vago sentito dire che rende mitico o idolatrico, nel bene come nel male, ogni cosa.
La canzone cantata da Maurizio Vandelli degli Equipe 84, Auschwitz, scritta, come io seppi più tardi, da Francesco Guccini, la si ascoltava al Juke-box al mare insieme a quelle dei Beatles, dei Dik-Dik, dei Nomadi, dei Rolling Stones.
Le parole di quella canzone rimasero per anni incomprensibili ed equivocate:
“Son morto ch’ero bambino
son morto con altri cento
passato per un camino
e ora sono nel vento.”
Mi sembrava che dal camino si entrasse, come la Befana, le Fate e gli gnomi e non riuscivo a spiegarmi come si “passasse” e “si fosse nel vento”.
Ma il:
“Siamo a milioni
in polvere qui nel vento”
mi indicava chiaramente che si trattava di persone morte ma esse non rimandavano agli eventi di Auschwitz; non sapevo cosa fosse Auschwitz.
Un bel pezzo di conoscenza mancava e poi erano gli Equipe 84 a cantarla, non poteva essere così tremenda… al mare, mentre si prendeva il sole, in vacanza! Assurdo.
Eppure, la trasfigurazione che si attuava nella mia coscienza attraverso questa canzone fu autentica e necessaria, ci si avvicinava comunque al vero, come mi confermava la successiva conoscenza di adulto.
Chi è nato prima dei Cinquanta può trovare ricordi felici nel periodo fascista solo perché quelli erano gli anni della propria fanciulezza e solo un idiota può rigettare questa comprensibile, umana, verità, che comprende l’accettazione di una propria e irripetibile biografia.
Ma anche l’infanzia è irripetibile e sarebbe altrettanto da idioti rimanere inchiodati alla memoria, senza la rammemorazione e l’elaborazione dell’adulto.
Infanzia va custodita e protetta da una sentinella intelligente.
Probabilmente mai ci libereremo dal fraseggio tra storia e memoria ma con coraggio bisogna pur assaporare gli insani e ambigui piaceri del passato con gli occhi asciutti e secchi da ogni lacrima; con lucidità.

Una notte

Giugno 5th, 2007

notte

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Sarà accaduto che gli odori notturni di un fine maggio, all’aperto, in un prato o in una boscaglia, prendessero il sopravvento sul corpo.
Il dionisiaco gelsomino avrà fatto rima con l’eterno femminino.
In un agosto più forte e potente l’aperto della natura sorpassava l’aperto di un corpo, rendendolo contorno, e non più protagonista.
Sarà pure accaduto che la ginnastica erotica sotto un cielo stellato e con il frusciare vociante degli alberi si sia arricchita con lo spettacolo di una insperata natura, tuttavia decentrandosi in un altro mondo, ove ci siamo sentiti osservati da un io distante, come in un palcoscenico ove allestivamo la nostra potenza, il nostro piacere, con uno sguardo più distaccato, pur partecipando all’amore appassionatamente; contando sull’esperienza, sulla “qualità” della prestazione.
Sarà dunque accaduto che pur penetrando quel corpo eravamo soli, in ascolto di altro; forse di noi stessi nel momento più inopportuno, quando l’altro era in ascolto solo di te.
Questo non ti sarà mai perdonato.
Hai tradito l’altro per ascoltare te stesso.
Potresti anche espiare a lungo questa imperdonabile colpa.

Un giorno

Giugno 3rd, 2007

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Un giorno si udì come un suono di campanellino o un colpetto con le dita dato ad un bicchiere di cristallo, tin, insomma un suono magico che annunciava un cambio di scena o di regia… Tutti all’improvviso erano diventati tristi. Nelle feste da ballo, ove accompagnavo mia sorella più grande di me, i dischi che avevo il compito di mettere su erano diventati tristissimi; sui quartieri popolari era scesa una coperta funerea e melanconica che riscaldava i suoi giovani, infreddoliti all’improvviso. Qualcuno se ne stava nell’angolo lontano del soggiorno con le spalle rattrappite a fumare Gaulois ritmando con lenti movimenti della testa la canzone di Tenco:
Un giorno dopo l’altro la vita se ne va un giorno dopo l’altro la stessa vita…
Alcuni maschi si alternavano alla finestra volgendo le spalle agli altri scrutando attraverso i vetri chissà quali orizzonti lontani in attesa che una Dalida o una Jiuliette Greco si avvicinasse gli mettesse una mano sulla spalla sussurrandogli: «parliamone, non fare così», ma anche le ragazze recitavano una loro tristezza personale. Il gioco della incomunicabilità, che esse praticavano meglio, non prevedeva l’accettazione dellle nuove reti seduttive dei ragazzi così ognuno se ne stava per i fatti suoi in attesa che succedesse qualcosa senza quasi ballare più. Io mettevo i dischi e guardavo stupefatto questo strano teatro fatto di lenti movimenti e continui cambiamenti nella disposizione dei corpi tra il divano le sedie e la finestra e non capivo. Indossavano quasi tutti dei grossi maglioni, la brillantina era sparita e i capelli sembravano incolti, non ci si faceva più la barba tutti i giorni e la maggior parte di loro aveva le sopracciglia aggrottate e tristi, come se avessero perso i genitori il giorno prima o non mangiassero più da settimane con i frigoriferi svuotati di colpo, forse una carestia, il ritorno alla povertà e alle famose pezze al culo, forse la terza guerra mondiale, un’altra Hiroshima. Non si capiva.
Mentre tornavamo a casa chiesi a mia sorella perché dovevo mettere sempre quei dischi tristi e perché non si ballava più. «Non puoi capire, ci sono dei problemi, ci sono crisi esistenziali» – mi rispose aggrottando la fronte come facevano gli altri.

Vanna

Giugno 1st, 2007

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Nel quartiere popolare della mia infanzia, dentro il famoso palazzo-treno, ci abitava anche Vanna: l’impossibile. Splendida e inarrivabile ragazza dai capelli lunghi e castani. Il suo nome era tutto nei capelli. Se mi si chiedesse qual’è la tipica ragazza dei primi anni Sessanta risponderei: Vanna.
Anche lei, come me, veniva mandata a fare la spesa e ci incontravamo – direi che io la incontravo perché lei mi ignorava – dalla fruttivendola Olimpia (che nomi cari miei!) o da Vincenzo, dall’alimentari. Entrambi bravi ragazzi con in mano la lista della spesa.
Io aspettavo il suo turno, con le fiamme in faccia, o lei il mio, astratta e lontana. Eravamo entrambi ammirati. Allora perché non ci siamo mai parlati?
Nel quartiere ci si misurava sempre con la lotta fisica, si stava sempre a fare a botte e Vanna veniva fuori da tutto questo come il paradiso irraggiungibile.
Altra razza, altra materia corporea, congiunzione perfetta e fortunosa di geometrie genetiche irripetibili ed inquietanti per eccesso di risultato. Ecco perché me ne stavo ammutolito e pietrificato.
Il Grande Fornaio del quartiere, tra le tante varietà di pane, un giorno decise di passare alla storia sfornando questa delizia profumata e perfetta mostrandomela sotto il naso quasi ogni giorno insieme al lampeggiare del neon dello Yomo: “Yomo ogni giorno”, diceva la luminosa pubblicità. Vanna era l’impossibile impastato con l’indicibile.
Non ci siamo mai parlati io e Vanna perché ero troppo un bravo ragazzo. Quando alla fine della terza media il mio amico Quirino mi disse che Vanna si era messa con quel falso bugiardo e stronzo di Ennio, mentre contemporaneamente andava a letto con quelli più grandi, non crollò solo un mito ma, contemporaneamente, si eresse la coscienza della mia stupidità. La prima suonata di sveglia.
Le divinità amano le forme spurie, l’indifferenziato, prediligono la soglia uomo-animale e il bello si accompagna spesso con la sua sprezzatura; in quella pasta meravigliosa approntata dal Grande Fornaio io cominciavo a vedervi qualcosa che assomigliava alla lordura. Con il tempo il panificio si fece sempre più malefico sotto le spoglie del meraviglioso e del viaggio afrodisiaco e dobbiamo aspettare gli anni Settanta per una immagine più dettagliata della Gòrgone: una giovane sforacchiata dagli aghi e sdentata, con radi capelli in testa, sbattuta su un marciapiede, la cui unica realizzazione è la riappropriazione completa del suo nome: Giovanna.