La famiglia abruzzese

Luglio 16th, 2007

sassi

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Me ne stavo l’inverno a studiare, in lunghi pomeriggi, sotto lo sguardo della nonna ad ascoltare i suoi intermittenti racconti del marito morto e della di lui famiglia di giocatori d’azzardo e di gran puttanieri.
Immaginavo lì sul tavolo da gioco, in qualche villa vetusta del solito barone decaduto, forse nella sbrecciata foresteria, o addirittura in cucina, con la cuccuma del caffè instancabile sopra i dischi concentrici della stufa, con le serve assonnate a portata di mano da palpare, sotto il cono di luce di pochi watts per risparmiare, immaginavo dicevo una serie di spostamenti non di cambiali e pagherò ma di miniature di case con terreno annesso che si affacciavano sul basso Adriatico anch’esso miniaturizzato, con il colore blu e qualche triglia guizzante, così come li coloravo nelle mie ricerche di geografia per il maestro Rosa.
Un fantasma di croupier spostava con la sua palettina pezzi di collina coltivata a vigna, appartamenti nella città del retroterra, lembi di spiaggia con rovina, spuntoni di rocche immemori abbarbicate su grigi calanchi instabili, tutto in piccola scala e realizzati da bravi maquettisti iperrealisti.
I calessi parcheggiati sull’aia che sfiorava la spiaggia, sotto tamerici e pini sghembi, erano anch’essi messi in gioco sul tavolaccio di rovere ove si animavano architetture e paesaggi monchi, mitologie proprietarie diluite da fiumi di sperma, di figli illeggittimi, di serve infilzate da abortivi lunghi sporchi ferri da calza.
Immaginavo donne sveglie al mattino che si ritrovavano senza più casa e terreno, nemmeno quell’orticello conquistato con la schiena piegata sino a ottant’anni, quel quadricciattolo di basilico e pomodori, zucchine e finocchio che se te lo tolgono muori e poi dicono che sei morta nel sonno tranquilla e invece per tutta la notte ti rivoltavi perché ti avevano espropriato la vita stessa.
Uomini che andavano avanti con fiaschi di vino e ozio, chiavate alle serve e alle loro figlie allampanate e ammaestrate a seghe e pompini, con mogli sorelle nonne bisnonne zie prozie nipoti figlie a tirarti fuori dal letame in cui cadi sbronzo e ripulito dal gioco.

I nostri morti

Luglio 13th, 2007

cervia

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I morti ci parlano? E, soprattutto, sono più buoni che da vivi?
Provatevi voi a rispondere a simili difficili domande.
Alla prima domanda io risponderei affermativamente.
Naturalmente non parlano la nostra stessa lingua e non in maniera diretta. Bisogna tener presente poi che la maggior parte dei morti sono timidi e un pò complessati e le loro strategie di avvicinamento sono sempre un pò farraginose ed infantili.
Se andiamo di fretta e siamo con altra gente non se ne parla nemmeno che essi comunichino con noi e poichè vogliono uno spazio tutto loro, ed essere al centro di molta attenzione, appunto come i bambini, se ne stanno lontano in attesa del momento buono.
Quando essi ci parlano ce ne accorgiamo immediatamente ed i segnali possono essere tra i più disparati. Ad esempio un brividino leggero dietro alla schiena, oppure l’apparizione di un oggetto dimenticato che si mette all’improvviso in evidenza, uno strano scompiglìo nella soffitta o in cantina a seconda delle preferenze ora aeree e ora viscerali di queste anime viaggiatrici.
Quando incorniciamo un loro ritratto nella nostra casa o erigiamo una lapide nella città dei morti o, per i più prestigiosi, addirittura un monumento, essi cominciano ad accasarsi e trovano in questi luoghi un ritrovo, vengono di tanto in tanto e vi aleggiano sopra, si danno appuntamento con altri loro amici defunti, vantandosi dei nostri omaggi, ricambiandoci con la loro protezione.
Volano sempre, anche sotto la pioggia, perché le anime sono fatte d’aria. Può bagnarsi l’aria?
Noi forse non lo sappiamo ma la mano che spesso ci solleva dalle nostre fosse esistenziali è la loro. Il loro aiuto, come la loro protezione, viene elargita con parsimonia.
La loro efficacia trova il vero successo quando le nostre risorse individuali ed autonome vengono meno e ci avvicianiamo a quel confine lamellare che ci separa da loro, quando siamo più vicini a loro da vivi. E’ allora che sentiamo il loro fiato, e loro il nostro. E’ il confine il punto d’incontro.
Attribuiamo spesso alla fortuna o ai miracoli simili accadimenti ma in realtà sono loro che, con grande sforzo, mettendo in atto indescrivibili energie, spostano, seppure leggermente, il percorso del nostro destino.
Dunque essi sono buoni?
Andiamoci cauti.
Prima di tutto essi devono superare la grande invidia che hanno per noi vivi, come gli dei di una volta per i mortali.
Invidiano la nostra finitezza.
Ci considerano stupidi perché dall’alto dei loro svolazzi sanno tutto, ed è facile per loro, ma nello stesso tempo sono in preda a desideri mimetici fortissimi. Per fortuna viene impedito loro che questa mimesi irriducibile si trasformi in vera e propria cattiveria e caos, a parte alcuni casi incredibili di maleficio che forse andrebbero presi in considerazione.
Se i morti erano inevoluti da vivi molto spesso vi rimangono anche da morti.
Ma molti di loro superano l’invidia per la nostra seppur stupida sostanza vitale e diventano buoni, saggi, persino più intelligenti di quanto lo fossero prima del trapasso.
Se essi sono cattivi con noi vuol dire che è la nostra accoglienza cattiva.
Se rivolgiamo loro i nostri pensieri e se nella lapide della memoria scolpiamo parole giuste, ospitali e pacificanti, essi massageranno il nostro corpo e la nostra mente con le intenzioni più bonificanti.

Il lato B

Luglio 9th, 2007

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Ci fu un giorno in cui scoprii il famoso lato B.
Mettevo su continuamente gli stessi famosi 45 giri e sempre dallo stesso lato, il lato A.
Ad un certo punto provai ad ascoltare il retro, che presentava canzoni particolari e diverse, forse più sperimentali e a volte in forte contraddizione con il suo lato maggiore.
Capii che ogni disco si presentava in due facce.
Il lato minore delle cose, il suo lato B, è sempre una rivelazione e ne tenni conto anche per la vita futura, anche se devo ammettere che non sempre mi è servito.

Il brodetto di pesce

Luglio 6th, 2007

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Un pomeriggio in cui mi sbattevo tra la cucina il salotto e il bagno non sapendo che farmene di me dei miei anni insignificanti del mio tempo del mio suicidio fallito e di tutto il resto del mondo fui testimone di una discussione durata ore sul brodetto di pesce, insomma con tutti i miei problemi e il mio nulla da fare queste donne, insieme a mia nonna, se ne stavano lì a cucire e a lavorare all’uncinetto, neanche fossero in un bow-window viennese, a disquisire sul brodetto ed io dovevo sorbirmi tutto.
– Eh no! Lo scorfano ci vuole, che importa se è brutto, puoi anche non mangiarlo ma dà il sapore, che brodetto è se non ci metti lo scorfano. Ma dove lo trovi lo scorfano? Ah ma io i fratelli li tradisco qualche volta, viene pure quel carretto la mattina presto no? Io lo scorfano lo prendo dal pescatore e anche se i fratelli Nunzio mi vedono non me ne importa, mio marito senza lo scorfano il brodetto non lo mangia. Quanto pomodoro usi? No no niente pomodoro mio marito lo vuole tipo guazzetto magari con qualche pezzo di patata, praticamente in bianco. Io lo faccio con il pomodoro a pezzetti, pelati Cirio. Pelati Cirio? Ma il pomodoro deve essere fresco, spellato e tagliato a pezzetti, lo compro da Olimpia, lo friggo insieme all’aglio e al prezzemolo e poi butto giù il pesce.
Il pesce tutto insieme? Ma il pesce non puoi metterlo tutto insieme, prima quello a cottura lunga e poi alla fine le paparazze e le cozze. No non è così, prima metti il pesce a cottura lunga poi lo togli e cuoci il resto che poi di nuovo togli e alla fine rimetti tutto e fai cuocere appena appena e poi metti il prezzemolo se magari avanza un po’ di sugo il giorno dopo ci faccio due linguine. Il prezzemolo fresco dopo? Sì il prezzemolo non va cotto insieme al sughetto va messo alla fine fa più aroma. Il peperoncino lo usi verde o rosso? Quello verde è più piccante ma fa un po’ amaro pensa che mio figlio grande il peperoncino lo tiene vicino al piatto e lo morde mentre mangia. Il pane abbruscato ce lo metti? Sì, però lo lascio più a mollo nel sugo perché mio marito con la dentiera nuova ha dei problemi. L’aglio però poi dopo puzza se lo mangi.
Può darsi, ma se lo mangiano tutti non se ne accorge nessuno.

Sofferenza a Fellinia

Luglio 5th, 2007

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Siamo al pronto soccorso dell’ospedale di Fellinia, in una mattina di un giorno estivo qualsiasi, non di un fine settimana (per fortuna); un giorno qualunque ove un milione e mezzo di persone circolano variamente in questa capitale del divertimento e della gioia. A fine estate gli amministratori-teatranti urleranno di gioia, contandone sei o sette milioni.
Là fuori le notti rosa e la vacanza, qui invece si soffre e si viene per essere assistiti, aiutati, alleviati, risanati.
Su dieci donne che tra qualche ora dovrà partorire otto sono turiste, venute qui in vacanza al nono mese, forse con auspici anagrafici tutti da decifrare.
Già si narrano saghe ove nella famosa notte rosa donne abbiano partorito nei prati.
L’ottimo personale medico e paramedico ti fa capire che solo le risorse umane, e professionali, riescono miracolosamente e generosamente a far funzionare una macchina che altrimenti potrebbe implodere da un momento all’altro.
Lo stesso spazio fisico è inadeguato: i corpi, distesi nelle lettighe, sono esposti allo sguardo, offesi nella loro dignità e nel loro privato più intimo.
Vedi un conoscente, ora fragile ed indifeso; gravi e meno gravi si alternano in uno spostamento continuo nel corridoio di pochi metri quadri tra intrecci di flebo tra familiari accusati di ostruire il passaggio e di ostacolare il lavoro sanitario.
Ma questi familiari sono lì per provvedere ad uno stato di necessità elementare: acqua, una bibita zuccherata, una coperta, spostare autonomamente un letto mobile per allontanarlo da una corrente d’aria, assistenza psicologica, conforto durante le lunghe ore di attesa, cinque, sei ore, e qualcuno preferisce andar via non potendone più.
Questa macchina parallela riesce a fatica a funzionare, così come continua a funzionare quella del piacere, la grande Fellinia a poche centinaia di metri da qui.
Questo pronto soccorso non è in grado di accogliere la città del dolore, è, oltre ogni evidenza, assolutamente inadeguato. È come un fortilizio in miniatura che osa fronteggiare una megalopoli vera e potenziale che lievita in questi mesi estivi.
Sapere che ogni giorno, ogni notte, si possa dire: “anche oggi ce l’abbiamo fatta” (vale per un turno) non è confortevole, ma è solo il linguaggio autosalvifico e parziale di una emergenza dopo ventiquattro ore di emergenze ormai quasi incontenibili.
Qui non siamo in un luogo ove vige l’armonizzazione e la razionalità, ma in quello del limite, del border-line, ove si congiungono le fatiche dei medici degli infermieri e di tutti gli altri (tutti quelli che ti “salvano”, indipendentemente dalla qualifica) e la estenuante attesa dei sofferenti, soprattutto gli anziani, insomma noi, io, tu; tutti siamo anziani, è solo un problema temporale.
Alla città del piacere, che accoglie turisticamente il buco del culo del mondo, non corrisponde una adeguata accoglienza del dolore.
Siamo in un luogo, stamattina, che rappresenta la nostra verità, nuda, reale, nera, dura, secca.
Da questa postazione, ne siamo certi, tutto è così poco rosa!

Surplace

Luglio 2nd, 2007

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Astratte e rigorose geometrie si proiettavano ortogonalmente sui campi vuoti. Non un segno, non una recinzione, nessuna misura sosteneva o comprovava le regole del gioco del calcio. Solo due sassi o due libri di scuola per segnare le due porte mentre per il resto era tutto a colpo d’occhio. Se la palla era fuori era fuori, non si discuteva, anche se nessuna linea bianca delimitava l’interno dall’esterno. Il corner, dopo estenuanti litigate con crolli di amicizie, veniva definito allo stesso modo, astrattamente, perché l’interno, l’appartenere ad un dentro, era sentito visceralmente.
Non c’era metà campo ma il palla a centro era la perfezione della geometria piana.
A seconda del numero dei giocatori il campo cambiava dimensioni proporzionalmente, secondo un’istintivo e ferreo sistema della sezione aurea.
Per il gioco di rubabandiera un tracciato rettilineo feriva leggermente il terreno, segno di fondazione di due mondi, di due spazi, di due gruppi umani agonisticamente uniti e contrapposti.
Al centro dei due spazi divisi, opposti ed infiniti, sulla linea terrestre, una statua umana immobile e congelata lasciava penzolare il fazzoletto da rubare. Uno dei due contendenti doveva sottrarre lo straccetto senza farsi toccare al momento della fuga per il rapido rientro nel suo gruppo.
A volte lunghi e tesi minuti di immobilità imprigionavano i due avversari che si studiavano a vicenda, mentre le mani sfioravano appena la bandiera ormai incadescente.
Questa sospensione carica di energia, questo tempo fermo ove tutto è immobile, persone campi case e tutto il resto del mondo, si chiama surplace.
Nelle gare ciclistiche si resta immobili a volte per molti minuti, non si avanza e non si retrocede. I ciclisti si studiano restando in equilibrio sulla bicicletta, ognuno osserva la tecnica dell’altro.
La velocità è contenuta nella sospensione immobile carica di tensione del surplace.
Nei campi passavamo interi pomeriggi a gareggiare con le nostre vecchie biciclette restando in surplace.
Ma questa condizione immota pronta allo scatto si estendeva anche al quotidiano, ai pomeriggi vuoti e fermi in un cielo azzurrissimo a non far niente, a ozieggiare, con i muscoli tesi pronti alla partenza, nell’attesa di qualcosa di portentoso e avventuroso, in surplace.

Non stancarsi nell’arte

Giugno 29th, 2007

animali.

L’artista non dovrebbe fare sforzi.La fatica dovrebbe essere allontanata, per quanto possibile.Qui non stiamo parlando del famoso, e vecchio, sforzo della tecnica che deve scomparire per lasciare magicamente la leggerezza del gesto.Si pensa piuttosto alla fatica fisica, materiale, di facchinaggio, di esercizio installativo, di manualità varia, che va dalla carpenteria all’uso dei softwares, dalla gestione della posta elettronica alle interviste.L’artista dovrebbe starsene tranquillamente seduto, in tutto riposo, a sfumacchiare la pipa (come in certi western di John Ford), pensoso ma leggero, come un Marcel Duchamp.Proprio come lui, maledetto lui; al massimo giocare a scacchi, ma con una mossa al giorno, come nella partita con John Cage, e fare di questo un lavoro, un’opera. Oppure, in anni recenti, nel trasporto più leggero e piccolo, inviabile in una piccola busta per posta, in quel Torno subito, da bottegaio più che da artista, esposto in una galleria vuota diversi anni fa a Bologna da Maurizio Cattelan. Mettersi nella tasca della giacca una mostra, rispetto alle scatole duchampiane, dimostra che si sono fatti dei passi avanti, passando naturalmente attraverso le “interminabili” domeniche di Mario Merz. Geniale!In Torno subito mi sono sentito schiaffeggiato nella verità, in un periodo della mia vita molto faticoso, in cui mi ero impantanato nella “fatica” installativa, nell'”ordine gigante” dell’arte dello spazio, ma senza uno spazio, soprattutto di uno spazio espositivo adeguato e di condivisione ma, soprattutto, senza uno specifico sistema, quello della comunità dell’arte, che prima o poi alleggerisce la tua fatica e disegna la tua esistenza.Il gesto di Cattelan mi ricorda quel famoso incontro tra Robert Rauschenberg e Willem de Kooning. Rauschenberg chiese di avere un disegno dell’olandese per farne un’opera di cancellazione: Erased de Kooning Drawing, del 1953.Cattelan invece ha cancellato la fatica dell’artista.Basta con il lavoro.Forse anche de Kooning voleva riposarsi, nonostante la sua demenza senile; gli mettevano i pennelli in mano e addirittura conducevano la sua mano scema, ma piena di dollari, sulla tela.Il rischio, per gli artisti di tutto riposo, e di successo, consiste forse nel fatto che tra mogli anomale, ex mogli, amanti, figli sparsi, in fila tra avvocati e notai, forse non avranno una vecchiaia tranquilla. Possono tuttavia sperare, ne siamo certi, nel riposo eterno.In tal modo potranno smettere finalmente di lavorare per gli altri, sotto ricatto, e ricongiungersi finalmente con un io celeste, e riabbracciare quel grande ozio dell’arte che essi avevano praticato e teorizzato in questa terra.Questo non mi conforta affatto, anche se può apparire credibile, e mi appresto a raggiungere il folto gruppo degli affaticati, con pochi dollari e molta speranza.i 

La ragazza del Piper in Viale dei pini

Giugno 28th, 2007

piper

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Non dimenticherò mai Viale dei pini.
In questo viale io vidi una sera camminare la ragazza perfetta, raggiunta da altri amici, anch’essi belli, che scendevano dalle case vicine e insieme formavano un gruppo armonioso, vestiti in modo da essere sempre un po’ avanti rispetto a noi, come se si fossero dati la voce.
Nella semioscurità del viale si vedeva solo il lampeggiare delle sigarette e i riflessi dei capelli mentre dall’altra parte del marciapiede in cui mi trovavo sentivo quasi il loro odore. Cosa si dicevano quella sera che a me era precluso?
Quando la vidi, pensai che fosse la vera ragazza del Piper.
La ragazza perfetta abitava in Viale dei Pini, ed io avrei voluto essere quel ragazzo triste.
Ragazzo triste sono uguale a te,
a volte piango e non so perché
tanti son soli come me e te ma un giorno spero
cambierà
nessuno può star solo,
non deve stare solo quando si è giovani così…

Se volevi imparare a vestirti dovevi vagare in Viale dei pini ed aspettare, nelle variazioni del giorno e della notte, questi figli nuovi della città in movimento.
Vedevi i primi minipull che in certi movimenti del corpo lasciavano scoperti con oculata distrazione lembi di camicia rosa e celeste, i morbidi mocassini neri di pelle di vitello indossati a piede nudo o con i calzini dello stesso colore del pull, i jeans di velluto a costine, bianchi o neri, con la lupetto blu sulle spalle sopra la camicia con i bottoncini sul collo; ragazze con la gonna corta scozzese, i calzettoni sotto il ginocchio e le classiche college, gli shorts a righine su culetti da infarto persino lavorati all’uncinetto da nonne all’improvviso rastellate dall’obitorio e mandate a forza dal parrucchiere, tutte mesciate a sferruzzare in terrazza copiando i modelli pubblicati su Annabella.
Autunno in città era uno sfolgorìo di colori di bosco, di mantelline rossobrune, di gonnine verdemarcio, ragazzine ricomposte dopo l’estate sfrenata e restituite al biancore, agganciate alle eleganti e altezzose madri che imperavano nello shopping e organizzavano per le figlie, si diceva, gli aborti a Londra.

Ritrovarsi

Giugno 25th, 2007

ritrovarsi

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È sempre difficile tornare nei luoghi originari e rivedere persone con le quali abbiamo interrotto il rapporto, soprattutto quello “visivo”.
Intendo dire quella presenza comune, che non necessariamente implica un frequentarsi, ma che occasionalmente assicura una continuità: si cambia comunque insieme, si invecchia insieme, si sa l’uno dell’altro nel passaparola tra amici e conoscenti.
Ritrovarsi, dopo venti o trent’anni, oltre a sperimentare la discontinuità viene rivelata anche la propria estraneità. Sei ingrassato, ma come sei ingrassato, vedo che hai perso i capelli, in fondo sei come prima, ti trovo invecchiato, tua moglie è sempre in forma, vedo che fai palestra, sei sempre uguale, non ti riconosco, perchè non fai una dieta, mi ricordo di te che eri un pò stronzo, vivi sempre a Ravenna, a Bologna, a Rimini, ma dove vivi?
Lascerei volentieri ad Ennio Flaiano la conduzione di questo teatro del ritrovarsi. Non ci si dice nulla, non si ha nulla da dirsi.
È il corpo che racconta tutto, ma chi legge il corpo lo legge secondo un suo alfabeto elementare e grezzo e, soprattutto, si tiene alla larga dalla parte alta del corpo, la testa, la mente, il cervello. Ma anche dalla parte bassa, i piedi, di quanta strada si è percorso. Cosa è accaduto al nostro cervello, e ai nostri piedi, in questi trent’anni?
Eppure, per me, guardandoli questi corpi ritrovati, affannati nella lotta perenne con l’immortalità, mi segnalano storie e avvenimenti che, pur non conoscendo, intuisco e immagino. Ma è qualcosa di pudìco e silenzioso, non mi sognerei mai di dire come sei grasso o, ad una amica, quanta cellulite hai accumulato.
In quel loro nascondere il tempo, nella loro gloria “fisica”, io scruto tragedie silenziose, seppur piombate in sorrisi pop o iperrealistici.
Cerco di leggere, anch’io, le mutazioni che il tempo ci impone, e che nella miracolosa “tenuta” dei conoscenti ritrovati annunciano tuttavia i segni di una precipitazione quasi imminente, che tra breve forse vedrà la loro scomparsa mondana o reinserita in nuove progettualità e protesi estetiche.
Nel loro trovare me, cambiato, non concepiscono che io vedo anche loro cambiati.
Solo che loro sono cambiati insieme, si sono rassicurati insieme, si sono scambiati carinerie e cattiverie, affetti e ferocie, baci e sputi, carezze e pugnalate, tutte cose che legano molto, in un patto indissolubile radicato in quel luogo, come in ogni luogo.
Ho trovato in Manuel Vázquez Montalban, sorprendente poeta, i versi giusti:

e se tu tornassi
fuggiasco dalla memoria
troveresti soltanto avanzi
del banchetto cannibale

ti si cancellerebbero per sempre
le ombre e i sentieri
della fuga e del ritorno

La raccolta poetica di Montalban, rara e sorprendente, si intitola Ciudad, Città.

Luciano Fabro, artista senza copertina

Giugno 24th, 2007

Fabro

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Quache giorno fa è scomparso Luciano Fabro, un artista notevole, complesso, “difficile” – ma non era Baudelaire a dire che il bello è difficile? – e polemico, di vecchia scuola. Ricordo una sera memorabile a Ravenna, all’inaugurazione di una sua antologica nella bellissima Loggetta Lombardesca, in cui l’artista, molto insoddisfatto di una frase stampata nel retro di copertina del suo sostanzioso e bel catalogo, custodiva l’ingresso facendo entrare solo coloro che si prestavano a staccare questa famigerata copertina conservando il tomo nudo. Nella collana che documenta le mostre di quegli anni Ottanta a Ravenna, e che ho in fila in una sezione della mia biblioteca, si distingue un “fuori collana” marrone scuro.
Fabro è l’artista senza copertina.
Alcuni anni fa lo chiamai al telefono per chiedergli dettagli più approfonditi su di una sua vecchia opera, Lo spirato, e che tra i tanti suoi lavori è quello che preferisco.
Molto gentile, piacevole; mi chiarì alcune cose e subito mi spedì una scheda ed una bella foto dell’opera alla cui realizzazione, mi pare, collaborò lo scultore Antonio Trotta (altro esperto di ciò che espongo più avanti).
Vuoto e assenze mi assillavano in quel periodo, e trovavo ne Lo spirato un paradigma perfetto.
La temperatura ideologica che avvolgeva quest’opera, realizzata alla fine degli anni sessanta, sembra ritirarsi in una permanenza estetica. Infatti, una generazione successiva la trova fresca e intatta come una giovane pianta in un giardino già fiorito. Il vuoto, qui, è rappresentato dalla parte mancante di un corpo la cui “presenza” è intuibile dal panneggio, che rivela una “presunta” sua metà, visto che nulla ci impedisce di credere che anche ciò che appare sia un vuoto, una illusione, un trucco. Ma in questo caso non è in gioco il solo vuoto fisico, quello “visibile”, il non c’è che c’è, ma anche il vuoto, piuttosto taoista, che l’artista fa dentro di sé, attraverso la rinuncia all’abilità, il sottrarsi dall’esecuzione, il distacco dalla tecnica. Nella dichiarazione che Luciano Fabro a suo tempo mi aveva spedito, a proposito di questa scultura marmorea, si rintracciano parole quali indifferenza, anonimo, neutro, rinuncia.
Vi è spiegata la delega ad altri dell’esecuzione, chiedendo ad artigiani la fattura di un panneggio tecnicamente neutro, non inquinato da sentimentalismi espressivi o particolari effetti plastici dominati da destrezza e seduzione. Forse Fabro cercava un panneggio da obitorio.
In tale contesto freddo e oggettivante il vuoto appare per quello che è: un vuoto di senso. Questa di Fabro è opera presente, trasparente ed evidente, come può essere appunto una cosa appena sparita. Proprio come lui.