Autostrade

Agosto 21st, 2007

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Non c’è il fascino, come in Roma di Fellini: tutte quelle auto ferme nel raccordo anulare, tutti fermi e chiusi nei loro misteriosi abitacoli, senza climatizzatore. I vetri oggi sono oscuranti, si vede poco dentro. Una coda in autostrada – una stradina chiamata A14 – lunga chilometri. Una rassegnazione, ormai, quasi da paese totalitario. Fortunatamente hai il kit di sopravvivenza quando viaggi lontano dalla civiltà: acqua, panini, latte pannolini e biberon del pupo, succhi di frutta, analgesico, caffè nel termos, profilattici e creme abbrozzanti.
Forse, se tutto è sballato e va in malora conviene; per reciprocità si è spinti all’illegalità e all’anarchia, genos italico. Verrà un giorno l’asso pigliatutto, Veltroni, e sistemerà tutto: nelle lunghe code autostradali verranno distribuite copie gratuite dei suoi libri (le paghi al casello). Puoi tentare la statale, ma è quasi lo stesso. Il viaggiatore poi vede paesi tutti uguali, stessa edilizia, stesse attività commerciali. L’inquinamento visivo pubblicitario è atroce, più il paese è piccolo più grandi sono le insegne e più stravaganti i nomi delle miriadi di pizzerie, ristoranti, bar. Il piccolo ama la grandezza. Inutili semafori sembrano sistemati appositamente per farti leggere comodamente le pubblicità. La metà degli italiani gestisce bar ristoranti e pizzerie, l’altra metà è a dieta. Qualcosa non funziona. Ricorda quella definizione data da Hemingway degli italiani: la metà scrive poesie e romanzi, l’altra metà è analfabeta. Se ne deduce che la metà che legge, o che scrive, è autoreferenziale; non esistono lettori. Tra otto ore saremo a casa. L’Italia si allunga.

Era la mia città

Agosto 18th, 2007

casa-di-carta.jpg                                                                                                                                                                                                                                                                 La sinéddoche urbana della città del medio Adriatico era rappresentata dalla Strada Vecchia. Questa via stava davvero per il tutto. Pur avendo un nome la si designava così, con l’aggettivazione vecchio; non storico, che pareva all’epoca termine troppo azzardato e poco praticato, neppure antico, non avendone il pedigree temporale giusto. Era piuttosto strada residuale, resistente per distrazione, vergognosamente appartata e per ora non fatta sedere alla tavola mangereggia della bella compagnia palazzinara ma lasciata in cucina, a mangiare con la servitù. Bastava superare il ponte che già l’altro argine del fiume, mureggiato da folti rovi spinosi, annunciava la povera origine urbana del tutto. Gli argini del fiume erano decisamente impraticabili, a parte per me e Quirino. Un intrico di canne e piante spinose – rovi che laceravano la pelle ma che sapevano ricompensarti con dolcissime more – si estendeva per chilometri sino ad un centinaio di metri dalla foce, ove ormeggiavano i pescherecci ed alcune sopravvissute Paranze.Prima del mare aperto una fila di caseggiati in legno per la pesca, li travucche, arroccate a metà tra gli scogli e i bordi del porto, allungavano verso il mare lunghi artigli con le reti da pesca. Quando queste macchine da pesca erano in riposo diventavano trampolini per i tuffi più audaci.Appena dieci anni prima il fiume era ancora balneabile. Tra morbide insenature venivano lanciate le nere e gonfie camere d’aria dei camion Fiat e ci si tuffava per raggiungerle. Niente eritema solare, niente creme, niente abbronzante, avevamo la pelle serica e nera, stavamo lì sul porto ad arrostire dopo estenuanti e competitivi tuffi ad aspettare il tramonto e i granchi che risalivano sugli scogli, catturati e mangiati sul posto con uno spruzzo di limone.E insieme cantavamo la canzone dei Marcelos Ferial:Cuando calienta el sol a quì en la playasiento tu cuerpo vibrar cerca de mìes tu palpitar…Tu recuerdo…Mi locura…Mi delirio…Me estremezco-o-o-ocuando calienta el sol.Cuando calienta el sol oh oh oh…Cuando calienta el sol sol sol.

La prima morte

Agosto 15th, 2007

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QUI GIACE
LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLORE
PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO
FRATELLINO PINOCCHIO

In questo episodio della favola di Pinocchio il burattino protagonista piange tutta la notte, la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre sul marmo mortuario che ricopriva il corpo sotterrato della Bambina dai capelli turchini. Qui, su questa tomba, una volta sorgeva una casa, la Casina bianca, che ora non c’è più. Pietro Chiostri, con il suo pennino, mi presentava quest’episodio con una tristezza esangue e senza luogo e nello stesso tempo mi salvava dalla visione della Bambina morta che per me sarebbe stata insopportabile. Solo una lastra di marmo con la croce, disegnata con la china, fu per me il primo aperitivo della morte.
Ma nella favola c’è qualcosa di ancora più terribile: l’impiccagione di Pinocchio a un ramo della Quercia grande.
L’agonia è lunghissima e il burattino, sbatacchiato dal vento per lunghissime ore, arriva alla fine del viaggio, dopo indicibili sofferenze, nel luogo dell’incertezza della morte. Lasciamo perdere poi i quattro spaventevoli conigli-becchini neri come l’inchiostro!
Ma non finisce ancora qui. La morte non è solamente esperienza risolutiva e finale.
La paura di morire ha una sua durata e, molte volte, essa sembra interminabile.
Pinocchio, inseguito dai noti assassini, corre dapprima per quindici chilometri per rifugiarsi su un’albero e poi ancora, per tutta la notte, per campi e vigneti.

Lo sceriffo

Agosto 14th, 2007

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Non lasciatevi influenzare dal cognome che porta: Gentilini. Gli uomini tradiscono spesso i propri onomastici. Lui è soprannominato lo sceriffo.
Eppure ricordo tanti films americani di sceriffi giusti, magari con storie complesse alle spalle, melanconici nevrotici e misteriosi che accompagnavano l’esercizio della giustizia con il buon senso e l’esperienza. Non ricordo nel grande cinema sceriffi urlanti e bisognosi di affermare la “tolleranza zero”, non ne avevano bisogno. La loro forza, certo, risiedeva nell’abile uso della pistola ma non se ne facevano vanto, anzi, la usavano il meno possibile rendendo questa loro bravura ancora più intimidatoria e potente. Il differimento della potenza risulta più terrificante della potenza stessa.
Un vero sceriffo non direbbe mai “se mi danno uno schiaffo io spacco la faccia”, non cadrebbe mai in una tale sproporzione che offenderebbe la sua autorevolezza e quel senso dell’equilibrio che la comunità ripone su di lui, guardiano della legge. Darebbe un segnale di insicurezza.
Ai veri sceriffi sono sconosciute le pulizie etniche e l’odio per gli omosessuali.
I grandi sceriffi hanno vaste amicizie virili, spesso coltivate in una relazione di sentimenti di omosessualità latente ove l’irruzione femminile, attraverso gelosie e risentimenti, ne dimostra l’esistenza. Nello scorrere il cinema americano, sino alla contemporaneità, attraverso gli sceriffi, troviamo pochi Gentilini.
Anche gli sceriffi venduti, alla fine, muoiono redenti.
Considerare l’ometto Gentilini uno sceriffo è un’offesa all’America, al suo cinema, e soprattutto rappresenta una sopravalutazione di questo piccolo uomo.
In genere, chi urla per affermare la propria virilità e unicità incontaminata è insicuro, debole, complessato; vede nemici che attentano alla propria identità perché non si è sicuri di averne una propria.
Gentilini è il folklore italiano alimentato dai media. I gay insorgono, la sinistra insorge, e va avanti il solito teatrino.
Gentilini, piuttosto, ricorda quei ladri (ex vaccari) delle mandrie altrui, con qualche depresso pistolero che lo accompagna, e che in qualche modo si fa nominare sceriffo in un momento di crisi della comunità.
Poi però arriva nel paese l’uomo vero, magari carico di nevrosi e crisi di identità (forse anche di tipo sessuale), tollerante e ambiguamente buono, che maneggia la pistola magicamente, anche se non la usa da tanti anni (infatti la tira fuori da un vecchio baule davanti alla moglie e i figli esterrefatti); è l’uomo giusto, il vero sceriffo. È’ più veloce, fa fuori il vaccaro che urla e sputa bestemmie e che con la sua “pistolina” non ci sa fare. Un rivolo di sangue scivola dalla bocca del vaccaro e questo per lo spettatore vuol dire che il giusto ha mirato, appunto, giusto, con una velocità impressionante.
Ma siamo sempre al cinema!

Viaggiare soffrire salire in treno

Agosto 13th, 2007

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Buon Ferragosto. Buon viaggio.

Aforismi di agosto 2

Agosto 12th, 2007

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Dio è un cellulare spento.

Dio non va in ferie, Dio è in ferie.

I politici cattolici, in genere, non onorano Dio.
In compenso però lo sniffano.

Dio è in ogni luogo,
tranne che nella mia cameretta.

Dio c’è,
io vorrei darmi malato.

Il sabato di Dio si è allungato per tutta la settimana.

Una volta ho sentito Dio dentro di me.
Ulcera.

Dio, in fondo, se la cava sempre.

Dio è calvo.

Amare Dio è un modo come un altro per non amarmi.

Dio non c’è e si vede.

Dio è in cielo e in terra.
Non al mare.

Dio non sbaglia mai,
a parte Adamo.

Dio creò prima la donna.
La cosiddetta primadonna.

Se Dio è unico
noi non siano da meno.

Una città

Agosto 10th, 2007

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Le lucciole non erano mai sparite per il semplice fatto che non erano mai esistite, la poesia non era mai esistita, e l’unico separatore temporale, assai poco poetico per la verità, consisteva nella fulminea sparizione dei campi, di tutti i campi, e nella rapida metàstasi cementizia che ingoiava da un giorno all’altro pezzi di storia, per quanto irrilevante e fragile quella storia fosse per noi. Se si fosse pazientato qualche anno anche il risicato finto Ottocento sparso qua e là avrebbe meritato un suo riscatto storico. Nessuna salvezza per il Liberty villereccio che punteggiava le colline vista mare immediatamente aggredito da un esercito di geometri e ingegneri che si erano dati la voce, compagni di sbronze pitagoriche risolte in un delirio di cubi e parallelepipedi. Presero in prestito l’affettatrice dei salumieri, tagliando la terra in lunghe fette rettilinee intersecate ortogonalmente da fettine più minute in modo che piccole città stavano dentro un’altra, e così via, all’infinito, come mastrjoske labirintiche che non riesci più a ricomporre. Esauriti in fretta i pochi nomi storici conosciuti le strade presero i nomi delle città italiane, poi di quelle straniere e nei momenti di riposo dopo tanto affaticamento cominciavano a chiamarsi Strada da denominare numero 1, 2, 3… I bar si moltiplicarono, sparirono i giochi insieme allo spazio ed esplose il Flipper mentre per i pochi poeti foruncolosi e pallidi rimaneva ancora qualche sparuto Juke-Box; cento lire tre dischi ma non trovavi mai le tue canzoni.
Nasceva un’asilo, poi una scuola, temporanei mini-market quale illusoria trasformazione di bottegucce olio pane e vino presto spazzati via dai super e dagli iper avanguardie dei non-luoghi che bisognosi di parcheggi sempre più ampi stendevano i loro tappeti di bitume e cemento, sparivano le parole in dialetto sostituite da una neolingua che sapeva di italiano rifatto o cucinato non si sa dove parlato da ragazzi per fortuna quasi per bene miscuglio di codici genetici incomprensibili, ragazzini tirati su da tutta quell’esplosione di precotti surgelati e congelati cena in rosticceria stasera. Il tempo e lo spazio si rattrappivano, sparivano il surplace e la noia, ma questa è tutta un’altra storia.

Journal 3

Agosto 7th, 2007

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Bretagna.

Martedì. Villaggio di Saint-Servant, paese molto particolare, vivace; ci si ritorna il pomeriggio per visitare un piccolo museo che illustra la storia della marineria ed in particolare la rotta di Capo Horn.
Cena di frutti di mare a Cancale. Impressionanti le coltivazioni di ostriche, sembrano città fantascientifiche.
Mercoledì tutta la mattina in spiaggia a Dinard, tanto per favorire il mio eritema che quest’anno ha la mostruosa novità di colpire anche il viso e le mani.
Pomeriggio a Mont Saint-Michel: Una visione, luogo unico. Bassa marea, paesaggio piatto e vuoto, superfici di argilla chiara rigata da residui d’acqua. Il borgo è autenticamente medievale. La sera fuochi di artificio sulla spiaggia di Dinard su tematica dedicata a Jules Verne: Dalla terra alla luna.
Giovedì. Giornata di pausa, vacanza nella vacanza. Visita a Saint Lunaire, villaggio a pochissimi chilometri da Saint-Malo. C’è un piccola e antichissima chiesa con le tombe di alcuni santi. Le reliquie di Sait Lunaire sono sparite. Fuori la chiesa una croce, con la vergine in granito. Villaggio di grande quiete e con formidabili boulangeries.
Venerdì. Escursioni importanti. Fougère ed il suo castello così come lo abbiamo fantasticato da bambini, con tanto di Mago Merlino e le Fate, buone e cattive. Il castello si fa città e viceversa. Tipologia architettonica veramente interessante: le stanze si articolano nella verticale della torre con magnifici camini. È la prima volta che un castello esprime un’idea di confort.
Il pomeriggio ritorno a Mont Saint-Michel per cogliere l’avanzata del mare, che nella precedente visita appariva lontano chilometri. Dall’abbazia abbiamo visto i cavalli marini al galoppo e che hanno ghermito tanti imprudenti pellegrini. Un santo che va rispettato altrimenti ti inchioda nelle sabbie mobili o ti agguanta con il suo terribile esercito delle maree.
Sabato. Mentre si è prossimi alla luna piena e le maree raggiungono il culmine anche il mio eritema esprime il massimo della mostruosità; le mani ricordano i tentacoli del Kraken o di qualche altro mostro marino di Verne.

Domenica. Non si fa nulla, ozio puro. Unico lavoro: impacchi di amido per lenire l’eritema, di colore rosso scuro. Visto da lontano sembro abbronzato.
Lunedì. Siamo ritornati a Saint-Servant per una piacevole passeggiata e per acquistare semenze per il giardino. Il negozio è chiuso per ferie. Altra cena a Cancale (qui farei 360 cene all’anno), ostriche e frutti di mare serviti su distese di alghe. Vino Sauvignon. Ora c’è il mare e i graticci di ostriche sono completamente immerse nell’acqua. Al ritorno, appena dopo il tramonto, la strada della costa mostra la Bretagna selvaggia, forte, melanconica. Prima della notte il mare è argento fuso, le scogliere e le isole si stagliano nere nel cielo blu. Il blu di Matisse.
Alla fine della settimana inizia il ritorno ma con un lungo giro francese per andare a far visita a Le Corbusier ed alla cappella di Notre-Dame-du-Haut, a Ronchamp. Una visita a Rennes. Non ci piace molto questa città. L’incendio del 1720 ha devastato quasi tutto e quel poco di centro storico, intorno alla chiesa di St. Pierre, presenta le tipiche case bretoni con le facciate disegnate dalle travi di legno a vista. Il museo è modesto ma con pezzi interessanti. Una città che stimola poco un journal.

Journal 2

Agosto 6th, 2007

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Bretagna.

Domenica mattina a Cambourg, la città di Chateaubriand, il suo castello, piuttosto maltenuto, ancora abitato, in parte, dai suoi discendenti. Costruzione severa ed incombente sul villaggio, la cui vita da questi spalti e finestre viene vista solo dall’alto e con distacco. Il parco, in alcune sue parti, è curato distrattamente dando a tutto l’insieme un aspetto fané e rabberciato. Dentro il castello si respira un’aria cadaverica e insana. Grazie a questo luogo triste ed oppressivo abbiamo di Chateaubriand quello che abbiamo.

Pomeriggio a la plage de l’Ecluse, sotto casa: bambini impegnati al gioco in stile anni Cinquanta. Via via che il mare avanza (maree di 12 metri di altezza) distrugge i castelli e le varie costruzioni di sabbia, lasciando poi al suo ritiro qualche traccia, come di vecchie rovine. Non importa, tra qualche ora i piccoli architetti potranno ricominciare a costruire.
Al mare qui ognuno sta come vuole e come può. Spiaggia elegante e popolare insieme. Piaceva a Matisse e a Picasso. Capanni di stoffa a righe bianche e azzurre e seggiole e teli portati da casa. Si sta in costume o vestiti. Andare in spiaggia non è come da noi. Questo mare e questo clima non lo permettono. Spiaggia elastica: ora stretta e claustrofobica ed un momento dopo sconfinata per grandiose partite a pallone ed estenuanti passeggiate cinematografiche alla Igmar Bergman.

Lunedì, a Dinard, mostra di Jules Verne che soggiornò in queste coste durante le sue vacanze.
Interessantissima mostra, ed i libri, prime edizioni, magnifici. Torno bambino, ma più intelligente di com’ero. Al pomeriggio escursione nella Vallée della Romce. Un cimitero del mare: relitti di imbarcazioni insabbiate e rivestite da alghe e incrostazioni marine. Seduto tra le rovine nautiche ho visto il cormorano in attività di pesca: formidable, incroyable!

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Journal 1

Agosto 5th, 2007

menir

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Verso la Bretagna.

Sosta nei pressi di Tours. Pernottamento nel “Chateau de Nobles” (Macon), castelletto molto tipico. Campagna ordinata e disseminata di vacche. Ricorda la Toscana, purchè non si nomini il vino. Atmosfera medievale, vita spartana come sanno viverla le persone ricche.

Arrivo a Dinard. Viaggio piuttosto faticoso. Il mare ha i suoi trucchi, scompare per ore seguendo il ritmo delle maree.
Dinard è tutto golfino e giubbino da velista. Molto raffinata e tranquilla. I bambini dovrebbero farci vergognare, sono tranquilli ed educati anche in spiaggia quando giocano. La casa dei nostri ospiti è piuttosto confortevole nonostante la solita farraginosità francese circa le funzionalità domestiche.

Visita a Saint-Malo. Qui Chateaubriand e la sorella si scambiavano parole misteriose ed inquietanti. La visione del mare è forte. La bassa marea scopre le rocce e in lontananza isolotti e fortezze puntellano il paesaggio marino. Un faro indica laggiù la rotta.
Dentro le mura Saint-Malo è rigorosa, austera e noiosa come i vescovi che l’hanno costruita.
La sera vien voglia di scrivere sciocchezze:

Mi accorsi che a Dinard
È vano nuotar
Scoppiò a Saint-Malo
Un amore melò
Qui manca il metrò
Perché tutto è retrò
Due volte al giorno puoi cagar
Tra il vento di Dinard
Tutti golfin
Tanti piccoli cagnolin
E schiacci tanti bei merdolin

Mattino. Dopo l’acquisto del buonissimo pane e dopo colazione un lungo giro a piedi per la costa di Dinard.
Al pomeriggio verso le Cap Fréhel. Promontorio sul mare dominato dal faro. Spettacolo straordinario. Vengono in mente le parole di Michelet: è bello sedersi vicino ai fari, sotto queste luci amiche, veri focolari della vita marina (La mer).
Qui si fa visita come ad un santuario. Nessuna cattedrale può competere con questa spettacolare architettura di rocce grigio-rosa consumate dal mare e dal vento, abitate da gabbiani e cormorani. In alcuni punti la vera vertigine, l’abîme puro.
È mancata putroppo la vista dal mare del grande faro, immaginando le vite salvate dalla sua luce.
Ancora Michelet: È importante vedere il proprio naufragio, incagliarsi in piena luce, conoscendo il luogo, le circostanze e le risorse che restano. “Gran Dio, se dobbiamo perire, facci perire nella luce.”