Il vuoto

Ottobre 15th, 2007

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Che cos’è un vuoto?
Un’assenza circondata di presenza.
La definizione è ripresa dal “patafisico” René Daumal a proposito dei fantasmi.
Il fantasma, per Daumal, è assenza circondata di presenza.
I fantasmi esistono perché ci siamo noi che con la nostra presenza li definiamo, contorniamo, evochiamo.
I vuoti si comprendono più facilmente con i buchi.
I bambini adorano il formaggio con i buchi, quello “svizzero”, e credono che i buchi siano più saporiti di tutto il resto. Beati loro.
I buchi hanno forma. Per forare un volume occorre una forma vuota, i cosiddetti oggetti booleani, che chi ha pratica con i modellatori digitali conosce bene.
Se vuoi creare un vuoto lo devi modellare come un pieno assente. Modificando l’assente modifichi la forma presente.
Per l’ebreo il vuoto è vivo, e scandito, nella vita quotidiana; è lo shabbat, il sabato, giorno del riposo. Dio ad un certo punto si ritirò dalla creazione ed andò a riposarsi; dove andò non lo sappiamo.
Le cose create tuttavia dovettero darsi una mossa e responsabilizzarsi visto il ritrarsi del padre creatore.
Il sabato non si fa nulla, è giorno dedicato al vuoto.
In genere, per quanto riguarda l’estetica del vuoto, vengono spesso considerate fondamentali le esperienze artistiche provenienti dalla cultura orientale come se noi, minorati occidentali, non avessimo mai praticato il vuoto. Leonardo, Caravaggio, Fontana, Burri, Fabro, Paolini, Boetti… non sono mai esistiti per i cultori dell’”altrove” che di solito conoscono poco il “proprio”, ritenuto o troppo impegnativo o poco fashion-seduttivo.
Il vuoto è anche una condizione dell’essere, rappresentato dalla noia, più o meno profonda, che rappresenta uno stato di sospensione nella continuità funzionale dell’esistenza. In genere si rifugge dalla noia e si riempie il vuoto come si può e non sempre in maniera utile ed efficace.
Spesso lasciare il vuoto a se stesso potrebbe produrre una qualche “chiamata” (da non confondere con uno squillo del cellulare) che ci rimette in gioco nella vita attiva.
I vuoti sono anche i vuoti di senso che ci appaiono ogni giorno, sono vuoti i nostri giochi linguistici, ironici, spesso feroci e cinici, la cui pratica e ginnastica ci salvano dal vuoto vero di senso e significato che ci assale quando ci viene richiesto un serio impegno per qualcosa cui non crediamo autenticamente o che confligge con il nostro buon senso.
Sul vuoto inciampiamo spesso ma non tutti lo vedono.
La pratica comune consiste nel riempirlo subito, muniti di palette e secchielli come bambini sulla spiaggia.
Ascoltare più o meno il vuoto, insomma, ci differenzia come persone.

Architettura riminese

Ottobre 12th, 2007

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VIVERE MODERNO AD UN PASSO DALLA STORIA.

Davanti Castel Sismondo, intorno al “rudere” del teatro Galli, si sono incatenati, si sono allacciati circondandolo e formando una catena umana protettiva, hanno fondato una corrente di pensiero (comunque mutuata) definita com’era e dov’era (che allargandosi ad altri beni culturali tutela anche la piada quale monumento del nostro territorio), hanno messo su un’associazione:  Rimini città d’arte, pur di scongiurare il (M)moderno: il progetto dello studio Natalini per un nuovo teatro, vincitore di un concorso pubblico di decenni fa del secolo scorso.Si è rinunciato ad un teatro (per amore del teatro!) pur di conservare il passato.Ora, in situazione ancor più problematica circa l’impatto storico-ambientale, del passato ci si fa beffa, anzi lo si mette in circolazione in forme pubblicitarie davanti ad un lotto che è proprio di fronte la Rocca.Ma si tratta di un residence. Forse qualcuno di quel vecchio comitato ci investirà pure. Il motto è esplicito, anche tipico banal-riminese: “Vivere moderno ad un passo dalla storia”Il rendering cartellonistico ci fa vedere come verrà tirato su il residence.Dal punto di vista architettonico conserva tutto l’anonimato e tutto lo standard formale con i quali si costruisce (ma non si progetta) in queste latitudini.Potremmo soffermarci sulle sgrammaticature e furbizie sintattiche del linguaggio architettonico ma sarebbe solo sadismo o accanimento terapeutico. Forse l’analisi, la critica architettonica, lo sguardo, potrebbero apparire sproporzionati rispetto all’oggetto di indagine con uno sperpero di neuroni irrisarcibile.Il riferimento storico è solo l’occasione per dare un nome a qualcosa di produttivo (fare legna!) così come si fa per un pub, un negozio, una discoteca.Ma perché tutto questo? Forse che lo spazio urbano, o una semplice facciata, non vengono considerati patrimonio della collettività anche se si tratta di interventi privati? Forse lo sconcio inesorabile dell’immagine della città riguarda solo i “feticci” intoccabili, ritenuti patrimonio collettivo seguendo un meccanismo cultural-mediatico, global-provinciale? Certe cose non si toccano ma per il resto si è di bocca buona. Ci vorrebbe il lettino dello psicoanalista per comprendere simili scollature d’identità cittadina.Ma come si fa a bloccare per decenni un progetto di teatro per “nobili” ragioni e poi, volgendo lo sguardo a pochi metri, ti vedi tirare su con velocità impressionante una “cosa” simile? Fa riflettere molto, ma ci getta anche in uno sconforto impotente!.il-brutto1.jpg.bello4.jpg

Architettura di stato, architettura globale

Ottobre 11th, 2007

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Grandi architetti erigono utopie realizzate e macchine fascinose nelle città più o meno globali del mondo. Sono gli archistars, così definiti perché visibili ormai anche dal grande pubblico.
Sono costruttori di miti ed utopie, oggi facilmente realizzabili grazie alla tecnologia e al digitale, in questa realtà economica capitalistica globale che può tutto.
Miti istituzionali, miti delle merci, miti culturali.
Ad un singolo manufatto architettonico si affidano intere comunità e ad esso vengono chieste forme di riscatto e si attuano riti compensatori per tutto quel resto di città difficilmente governabile, come avveniva con i totem nelle società non stanziali ove oltre il cerchio delimitato dal fusto ligneo vigeva una territorialità non sottoposta alle leggi del sacro.
Dentro la fluidità liquida, nomade e magmatica dell’indifferenziato urbano, vengono incuneate queste utopie realizzate; la smaterializzazione si materializza, le contraddizioni e le aporie, formali o di derivazione storica-ideologica, si fanno architetture fantastiche che dichiarano il loro esserci e la loro fattività qui ed ora.
Tutte le utopie architettoniche, soprattutto quelle europee tra le due guerre del secolo scorso, sembrano magicamente realizzarsi; le poetiche prefigurazioni di Paul Scherbart sull’architettura del vetro e tutte le ricerche sull’architettura mutuata dalla struttura dei cristalli, in ambito soprattutto espressionista, sono ormai davanti a noi, persino in fotocopia: faraonici centri commerciali nei più improbabili dei nostri spaesaggi. Dall’architettura disegnata a quella realizzata.
Eppure, non era questo il compito? Di uscire dall’indifferenziato e dalla “percezione distratta” a cui il Moderno ci aveva abituato?
Queste architetture sono investite di una responsabilità simbolica dettata da categorie molto precise: Politica, Stato, Consumo, Istituzione.
Poi ci sono i resti, tutto il resto.
Tutto il resto è la nuda vita.

I vuoti periferici attendono l’imitazione degli archistars.
Una vita comportamentale mimetica e falsata.
La “buona architettura”, sparita.
Perché una tale procedura mitica presuppone o la grandezza o il nulla, come accade in televisione o in altre forme di esposizione mediatica contemporanea. O tutto o niente. E siccome nessuno vuole essere il nulla avremo un’architettura che non sarà più rappresentativa o al servizio di una comunità, ma solo di un conflitto narcisistico, e di potere, attuato ai nostri danni.
Epigoni di archistars e devastazione territoriale, con macchine sempre fuori scala come ready-made dadaistici.

Con malinconia, scorriamo i disegni, gli acquerelli e le opere di Aldo Rossi, le sue “permanenze” della storia urbana, l’idea del “monumento”, le memorie collettive che si raggrumano intorno ai luoghi e le cose. Penso che andrò a rivedermi qualche vecchio film del dopoguerra con le case a “ringhiera”, ricordando gli ampi pianerottoli dove si giocava, e dove già si praticava il cohousing ma al naturale.

Ancora sul veltronismo, purtroppo

Ottobre 8th, 2007

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Siamo costretti a tornare su Veltroni-Capiscioni e sul veltronismo, che avevamo definito come l’altra faccia del berlusconismo. Abbiamo trovato l’interfaccia: la Signora Veronica Lario, moglie del Cavaliere Silvio Berlusconi.Per l’autocandidato leader del PD e futuro premier la Signora è una grande risorsa politica, può dare molto al futuro partito. Noi non possiamo dare nulla; Franco, Gisella, Emilio, Luca, Davide, Marina, Ernesto, Claudia, non possono dare nessun contributo, non sono risorse. Costoro lavorano e non vivono in castelli di cristallo dorato ove dall’alto delle loro torri, ogni tanto, vengono pronunciate frasi di femminismo alto-secessionista o boutades zen e new-age, o tipo Chance il giardiniere, del famoso film “Oltre il giardino”; effetti di superficie che piacciono tanto al Capiscione- Zelig. Costoro ci danno sotto ogni giorno e non saranno mai risorse. Qui, non si fa sentire nessuno.

Morti

Ottobre 4th, 2007

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Morti immobili in un letto, con il vestito migliore, puliti e lavati, con le scarpe lucide, ben pettinati e profumati al limite della soglia ancora umana.
Tutti immersi nella stessa penombra della veglia funebre, circondati dai fiori, dalle corone e dal cordoglio sussurrato, trattenuti prima che la loro anima abbandoni i loro corpi, come se si conoscesse il tempo della definitiva separazione.
I toni si smorzano, gli oggetti riposano, la coperta dei morti si distende sulla casa.
Essi sono guardati ma non possono restiturci lo sguardo.
Un’insopportabile e crudele passività spezza la consueta reciprocità degli sguardi e getta i loro corpi nel campo dell’esposizione indifesa.
Possiamo scrutare i loro difetti o la loro involontaria espressione che in quel momento non è delle migliori, e quasi non crediamo a quella immobilità e non-pensosità.
Ho sempre creduto, durante le lunghe veglie funebri, che essi ci scrutano molto e più di quanto facessero in vita, ma in un tempo breve, ed essi, ora, sono più benevoli.
La nonna non mi rimprovera per una risata inopportuna e Guido non ha nulla da contestarmi. Essi sono sicuramente più buoni e non è vero che siano immobili.
Se fisso attentamente i loro volti vedo che un sopracciglio si muove, che la bocca contratta si distende in un ironico sorriso e che la mano che ho baciato ha un fremito, non è allo stesso posto in cui ora l’ho lasciata.
Tra le labbra nere un filo rosso anima ancora una possibilità di parola, pacata, fatta di altra sostanza sonora e con altre finalità acustiche.
Dall’angolo della stanza in cui mi sono appostato vedo la forza stupefacente che questi morti emanano ora, cosa riescono a combinare tra la gente che è venuta a far loro visita.
Cugini si conoscono per la prima volta, parenti che credevamo bruttissimi sono diventati bellissimi, quelli poveri sono venuti con l’ultimo modello Alfa, quelli alti ora sono piccoletti, quelli antipatici non smettono di accarezzarmi, una ragazza-parente sconosciuta ha un culo bellissimo, quei fratelli che non si parlavano più per via di un’eredità si sono appartati in cucina e stanno soavemente conversando, appianando, accordando, quasi si abbracciano; si intrecciano lunghi racconti distribuiti tra varie stanze, saghe familiari e anàmnesi a me sconosciute vengono tracciate al capezzale del morto, una sfrenata voglia di chiamare il morto per nome ed intimargli di alzarsi si impadronisce di me.
Si comincia a mangiare qualcosa, si tira fuori il vino e qualche liquore, si accenna ad un sorriso, si fa qualche battuta, si ride di cuore e poi ci si vergogna e ci si rinsacca nel lutto ma non è come prima, un’elettrica vitalità serpeggia tra i vivi.

Israele e noi

Ottobre 1st, 2007

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C’è sempre stata una sproporzione di giudizio tra le azioni militari compiute dallo Stato di Israele e quelle commesse da altri ai suoi danni, compromettendone quotidianamente sicurezza ed esistenza. Alcune responsabilità dello Stato di Israele vengono da tempo stigmatizzate utilizzando valutazioni che ruotano intorno ad un crudele processo di rovesciamento, giocando pericolosamente con la storia: azione nazista, peggio delle SS, deportazione. È evidente che dare del nazista ad un ebreo deve produrre un grande brivido di piacere a qualcuno. Israele, il paese del Medio Oriente più vicino a noi, sia sul piano istituzionale-democratico che su quello culturale e civile, è sottoposto ad un’osservazione meticolosa che non lascia passare nulla, mentre noi, qui, forse abbiamo già dimenticato nomi di luoghi come Bolzaneto ove si praticavano torture.
La sproporzione diventa eclatante quando il premier iraniano Ahmadinejad dichiara che Israele deve essere cancellata dalle carte geografiche e che l’Olocausto è “una falsa leggenda”.
Si considera Ahmadinejad come un Umberto Bossi che invita a prendere i fucili?
Si sottovaluta la minaccia perché la minaccia è rivolta a Israele e non alla Repubblica di San Marino?
La minaccia è sottovalutata perché incontra un substrato ideologico culturale preesistente che non considera Israele prossimo a noi. In un certo senso neghiamo anche noi stessi; ed in effetti lo stiamo già facendo, avendo ormai eroso una nostra identità nazionale e senso di appartenenza. Noi, forse, non siamo più un vero Stato. Eppure facciamo le pulci agli altri.
Si sottovaluta oggi Ahmadinejad come si sottovalutava all’inizio Adolf Hitler e si considerava una farsa il pusch di Monaco del 1923 e la famosa birreria e non si lesse con la dovuta attenzione il suo Mein Kampf.
Mi sono sempre sentito in minoranza ed isolato nelle discussioni, anche tra amici, quando si affrontava Israele e la questione palestinese. Parlavo con un muro, invalicabile.
Arafat, l’uomo con la pistola all’ONU e nel letto di morte, l’uomo con la moglie a Parigi che ricatta i palestinesi sull’eredità, il Premio Nobel per la pace, oggi, chi lo ricorda più? E dove sono finiti i suoi fans? Chi indossa più la kefiah?
Come mai è stata così rapida la sua rimozione, soprattutto a sinistra, quando sono venute fuori tutte le ambiguità e le furbizie squallide di quest’uomo che in momenti epocali e cruciali faceva passi indietro contro il suo stesso popolo per garantire solo il suo potere?
Il fatto è che odiare l’altro nostro simile, vicino nelle forme democratiche e parlamentari, ma lontano geograficamente, è una forma di riscatto dalle contraddizioni nostre che non vogliamo vedere (e che non abbiamo il coraggio di risolvere). La questione ebraica poi è un alibi aggravante, pesca nel torbido, negli stereotipi persecutori di ieri e di oggi.

Grillo e Bauman

Settembre 29th, 2007

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Beppe Grillo è stato un refusé per molti anni. Gli fu impedito di lavorare in RAI a causa di alcune battute, all’epoca, sui socialisti italiani. Potrebbe aver covato da allora uno di quei fatali risentimenti che, secondo le analisi di Zygmunt Bauman, si sarebbero potute trasformare in una ideologia. In effetti nell’ormai famoso vaffanculo-day, nelle varie piazze italiane, la voce registrata di Grillo si lamentava della scarsa considerazione riservata al suo libro, vendutissimo, ricordando enfaticamente la prefazione del premio Nobel Joseph E. Stiglitz .
Questa esibizione pubblicitaria inglobata nello spettacolo-denuncia, che ripropone la condizione del refusé, è ambigua. Tuttavia il libro è scaricabile gratuitamente, e questo va considerato favorevolmente. Per il resto i politici (a parte Piero Fassino) hanno risposto in affanno e puerilmente (non sono molto intelligenti) ed in genere hanno attuato un processo di demolizione utilizzando schemi obsoleti.
Quando Grillo raggiungerà il massimo dell’esposizione, italianamente, non potrà che decrescere o implodere, ma sul chi ci guadegnerà è una vera incognita.
Aforisma autunnale:

Le foglie non cadono più e non vogliono dimettersi.

La famigliola

Settembre 26th, 2007

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Qualche anno fa chiesi ad una simpatica e giovane donna, assessore di un bellissimo paese della Romagna, Bagnocavallo, ed appartenente all’allora PDS, come mai organizzasse nelle serate estive, e durante le festività natalizie, manifestazioni di basso profilo culturale giocando soprattutto su retoriche localistiche e su strategie culturali molto banali.
Provocatoriamente (era piuttosto attraente) le feci notare che in fondo non c’era molta differenza dalla cultura “leghista”, che allora cavalcava quasi le stesse idee.
Lei candidamente mi rispose che se si voleva far uscire la sera le famigliole bisognava programmare in quel modo.
La risposta mi parve accettabile e al momento persino intelligente.
Ma provai al contempo raccapriccio, come spesso mi accade, sull’uso dei termini.
La parola famigliola la trovai orripilante, tuttavia significativa di come, questa nuova sinistra moderna, intendeva muoversi nel terzo millennio.
Credere o non credere alla famiglia non è importante, era comunque un target.
In quel termine io lessi una sprezzatura, per quanto la parola indichi un concetto di famiglia allargata, e dunque apparentemente più corrispondente al contemporaneo. No, la famiglia è famiglia. Che siano due omosessuali due sorelle o due fratelli o frammenti di affettività più o meno estese, diconsi famiglie; non famigliole che fa rima con braciole braciolate piadina e sangiovese, per superficializzare, futilizzare, o autosdoganarsi dalla pesantezza ideologica della propria provenienza che si riduce poi in un comportamento psicologicamente scollato: non ci credo ma sono trendy, come si diceva allora.
Per far uscire la sera le cosiddette famigliole non era necessario un assessore ma un art-director di eventi. L’assessore, invece, si occupa di famiglie, di politica per le famiglie, di tutti noi, anche dei single che, soli ma socializzati, fanno pur una famiglia.

Flaiano a tavola

Settembre 24th, 2007

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Ennio Flaiano era contro gli sprechi a tavola e certi suoi atteggiamenti erano accompagnati da un grande senso del pudore. Quand’era a pranzo con Federico Fellini, che aveva l’abitudine di non finire il piatto, si premurava di mangiare anche gli avanzi dell’amico, oppure di nascosto li nascondeva da qualche parte, per paura che il proprietario della trattoria potesse pensare che la cucina non fosse gradita. Ordinare e non finire poi non sta bene; è, come si dice, uno schiaffo alla miseria.
Il giornalista Sergio Rizzo ci ricorda un episodio:
Un giorno il presidente Luigi Einaudi invitò a pranzo un gruppo di giornalisti e intellettuali. Alla frutta, il maggiordomo recò un enorme vassoio dove c’era di tutto. E, tra quei frutti, delle pere molto grandi. Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò:Io prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che vuole dividerla con me?
Il maggiordomo si fece rosso e molti rimasero interdetti.
Finchè Ennio Flaiano alzò la mano: Io!

La repubblica delle pere indivise

Frank Gehry e Pablo Picasso

Settembre 20th, 2007

Il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank Gehry mi ha sempre evocato un quadro di Picasso del 1937 intitolato La baignade.
È l’opera più mediterranea che il Novecento abbia prodotto, è tra le opere più poetiche di Picasso con risvolti di tenerezza e delicatezza. È tra le opere che mi hanno fatto più sognare.
La formazione di Frank Gehry deve molto all’arte e agli artisti, arte americana, artisti americani.
Nel film di Sidney Pollak (Sketches of Frank Gehry) alla domanda se l’arte entra in gioco nel processo compositivo Gehry mostra una riproduzione di un quadro di Hieronymus Bosch al quale si è ispirato per un suo lavoro a Gerusalemme.
Ma al di là di questo episodio significativo, che lega in qualche modo il famoso architetto con l’arte europea (ma del passato), forse il suo famoso psicoterapeuta, che viene intervistato nel film di Pollak, avrebbe potuto, e spero che lo farà in altra occasione, mostrare a Frank questo quadro di Picasso “rimosso”.
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