Il progetto della mia mostra abortita in Abruzzo e non so perché

Aprile 2nd, 2009

antonio-marchetti-sistema-nervoso.jpg.

Nell’estate del 2007, a Montepagano, in occasione di una edizione di “Trasalimenti”, avevo esposto in buona compagnia di artisti una serie di operine di piccolo e medio formato raccolte sotto il titolo “City”. 

I lavoretti erano sistemati nelle soffitte del palazzo Mezzopreti di quella bella e antica città abruzzese che getta dall’alto il suo  sguardo alla vicina marina adriatica, mentre nel piano nobile del palazzo si dispiegavano le opere di Fabio Mauri. L’idea di stare sopra la testa di Mauri non mi dispiaceva. Essere artista “minore” ma sistemato sopra la testa di qualcuno che pur ammiriamo e rispettiamo mi pareva una buona posizione.

In quelle colorate rappresentazioni urbane, una pittura in forma di “maquette” come se si volesse dipingere la pluridimensionalità di un mondo con l’onnipotenza tipica dell’infanzia, circolavano però lavori che riguardavano la solitudine di un morente nella corsia di un ospedale, le rovine o l’angoscia notturna di una periferia; al gioco cromatico di una città felice serpeggiavano imminenti catastrofi, collettive o individuali, domestiche.

Lo stile, evidentemente, voleva occultare queste differenze rendendo il tutto “felicemente” fruibile. Lo stile con cui si dicono le cose è molto importante, per un artista la “forma” poi è l’essenziale. Un artista non può che formalizzare, sempre; iI contenuto è sempre nella forma.

In questa mia prova per “Trasalimenti 2009”, più impegnativa dopo le aeree soffitte di Montepagano, ho aggiunto, a completamento di una idea più generale, la campagna, il “paese” o, se volete, lo “strapaese” in qualche memoria storica e pittorica che molti potranno rintracciare; “Country”, appunto. C’è molta italianità in questo, di conseguenza molta cultura europea.

In un certo senso ” Country & City” conclude idealmente la narrazione cominciata a Montepagano in quell’estate di due anni fa. La scelta di un titolo in lingua inglese, una lingua “globale”, vorrebbe mettere in gioco il paradosso tra una velocità virtuale e la lentezza dei luoghi, o almeno una loro intrinseca  “resistenza”, esibendo un’ origine. Essere contemporanei significa sempre tornare a pescare in qualcosa di arcaico; con il rischio di essere inattuali.

Ma in verità, come ben sappiamo, pur definendo un percorso nell’illusione di averlo “compreso” e organizzato, lasciamo dei resti, delle inconclusioni, dei sentieri interrotti, dei progetti che meritavano forse un miglior destino, una lateralità pur importante del nostro viaggio ma che ha avuto poca fortuna, o  forse non è stato compreso. Noi stessi non siamo stati in grado di far comprendere. 

Sono quei lavori che contengono la progettualità di una crisi, sono le fratture tra le stagioni (esistenziali oltre che artistiche), le rotture tra le vertebre di un asse che pensavamo ci tenesse in piedi. 

Un progetto di crisi si delinea quando raccogliamo senza un sistema preordinato, in una specie di sospensione che oscilla tra noia ed inerzia ma ove si annuncia un lontano nuovo mattino. È un tempo vuoto. Eppure si è “costruito” qualcosa.

Le diciannove scatole reintitolate “facies” (non chiedetemi che fine abbia fatto la ventesima) nascono da questo stato di vuoto di un annoiato collezionista di cose inutili, recuperate dal fondo del’inessenziale e della marginalità, anche dalla spazzatura. Il progetto si è delineato spontaneamente in tracciati di volti, archetipi di volti, maschere, dominati dal demone della simmetria e dello specchio, che hanno aiutato l’idea compositiva, il farsi di una “regola”, per così dire. 

La serie “scultorea” Angelus Novus non è che la derivazione tridimensionale di queste scatole nate da un naufragio, per quanto colorato, mentre è evidente, per molti accorti osservatori, l’omaggio a Paul Klee e a Walter Benjamin.

Poi c’è un vecchio lavoro su parete dal titolo “Sistema nervoso” che per questa mia mostra desidero riproporre. Questa “istallazione” flessibile (che varia a seconda dello spazio e delle sue dimensioni) la definirei  “pittura”. Si tratta di logori stracci neri tenuti in “tensione nervosa” da pugni chiusi, calchi della mia mano e di quella di mio figlio (una involontaria metafora edipica?). La sovrapposizione di stracci, con le lacerazioni pendenti e le sfilacciature, vogliono essere nient’altro che scolature di colore e una modalità della  pittura.

La sproporzione tra lo sperpero di energia ed i risultati, quando proposi per la prima volta questo lavoro più di un decennio fa in un luogo molto particolare, mi spinge ora a mostrarlo ad un pubblico, spero, più vasto, e più libero da condizionamenti claustrofobici di “sistema”, che spesso tarpano l’autenticità del  gesto artistico.

Infine propongo un lavoro sospeso dalla terra, aereo, che abita metri cubi piuttosto che metri quadri lineari, il cui supporto è l’aria, il vuoto. Questi misuratori di aria e di correnti, ma d’interno, si fondano sullo stesso linguaggio e sugli stessi principi delle scatole “facies” e degli “angelus novus”, solo che vogliono sollevare lo sguardo dello spettatore verso un asse ottico verticale, verso l’alto, dove in genere non guardiamo mai, radicati come siamo alla linea terrestre ed alle superficii verticali ad essa perpendicolari.

 

antonio-marchetti-vario-son-da-me-stesso.jpg 

 

Antonio Marchetti:Gineceo. Alberto Boatto

Febbraio 23rd, 2009

antonio-marchetti-nodo.jpgConsiderato soltanto alla superficie, “Gineceo” di Antonio Marchetti (il Filo editore, Roma 2008) è una narrazione evidente in ogni suo particolare. Si tratta di un racconto dove l’autore ricostruisce l’intera sua giovinezza, dall’infanzia alla fine dell’adolescenza, dopo gli ultimi anni di un caotico dopoguerra, in una città del centro Italia affacciata sul mare (probabilmente Pescara*). E da questo nucleo discende naturalmente la rappresentazione della casa dove vive, della sbandata ma numerosa famiglia, dei compagni di giochi, e poi la scuola, la chiesa, il piccolo cinema della periferia. Certo il libro di Marchetti è questo, ma non si esaurisce interamente in questa cronaca domestica e prevedibile.Nelle prime pagine, l’autore definisce la natura umana una “poltiglia lattiginosa, ambigua, opaca e ambivalente”, ed è proprio in questa “poltiglia” che affonda la sua narrazione. Questa materia, fatta di pastasciutta e di sperma, d’ingestione della prima e di dispersione del secondo, sommerge l’arco completo della formazione dell’io narrante. Fino al capitolo conclusivo, dove il protagonista viene presentato ventenne e felice proprietario di un’utilitaria, incerto se partire o rimanere, lasciare appunto alle spalle la materia della sua formazione oppure immergersi in essa sino in fondo, trarne tutti gli improbabili profitti. Il narratore non parte, rimandando ogni decisione ad un domani imprecisato.Nel libro questa “poltiglia” si rivela sorprendentemente produttiva. Determina il tipo di narrazione, singolarmente portata più dalla consistenza dello spazio che dalla scorrevolezza del tempo, ed alimenta infine l’humor che colora e deforma tutte le cose. È lo spazio a segnalare i cambiamenti, lo stesso trascorrere della durata. Ed è il senso dell’humor che plasma la “poltiglia” biancastra, ne ricava i personaggi, una rumorosa marmaglia di bambini e di bambine, di ragazzi e di ragazzette, di uomini e di donne.Marchetti finisce per tracciare una minuziosa cartografia, che partendo dal quartiere popolare dove abita, si slarga per tappe successive dal blocco abitativo alla strada, al rione periferico. Fino a segnare la scoperta dei quartieri esterni, dove dimora la borghesia, un mondo diverso negli abiti, nelle abitudini e nello stesso linguaggio.All’intreccio delle strade e dei percorsi abituali in cui si logora l’esistenza del giovane protagonista, corrisponde l’intreccio della parentela. La famiglia, seppure disunita, col padre che vive con un’altra donna e un altro figlio, e con la madre che si è data alla vita, la famiglia è assestata su un fitto numero di componenti, d’incastri, di congiunzioni. La “poltiglia” che invade ogni parte di “Gineceo”, fatta com’è di materia carnale, è fatta con fatalità anche di succo parentale. Con forza espressiva il libro di Marchetti ci testimonia la calda, spaventosa, proliferante realtà familiare di un’Italia che sta uscendo con affanno da una condizione d’arretratezza provinciale e contadina.Ma interviene l’umorismo con la funzione di un salvagente che tiene a galla, impedendo di sprofondare, d’appiattire tutto nel trionfo dell’opacità e dell’anonimo. Ogni figurina che compare è caratterizzata fisicamente e psicologicamente. Magari solo dal colore del vestitino che indossa, dalla smorfia del volto e dall’umile mestiere che esercita. Anche la fatica senza respiro di tutte queste casalinghe, a partire dalla nonna Bettina che tiene in qualche modo unita la dispersa e troppo larga parentela, anche il lavoro delle massaie viene presentato come un mestiere. Come in effetti lo è, privo di qualsiasi compenso anche semplicemente affettivo. Malgrado le acclamazioni che accompagnano i piatti della tradizione contadina che vengono confezionati per le riunioni plenarie della “famiglia-serpente”.Marchetti tende a trasformare i suoi personaggi in piccoli, domestici mostri, scodati ma non affatto innocui. Tranne due: la nonna, che svolge un po’ il ruolo di “martire”, e poi la mamma, la bella e scapestrata Viola che col suo debole per gli uomini e la sua infatuazione per i divi del cinema americano introduce un soffio di folle ariosità nell’asfissia di un mondo portato a fondo dai legami di sangue, dall’egoismo e dalla forza del sesso che infierisce come un’epidemia, senza offrire né distensione né gioia. Il protagonista se ne difende con l’esercizio dell’umorismo, ma ne resta in sostanza prigioniero. Sebbene al volante della nuova Cinquecento, non riesce a risolversi, ad accendere il motore e a scappare via.(*) Sui rapporti fra la città di Pescara ed Ennio Flaiano, Marchetti ci ha fornito una persuasiva e brillante documentazione nel suo: “Pescara: Ennio Flaiano e la città parallela”, Unicopli, Milano, 2004.Antonio Marchetti, Gineceo, Edizioni Il Filo, Roma dicembre 2008, pp. 123, € 14,00

Nuovo cinema purgatorio

Febbraio 21st, 2009

 antonio-marchetticostruzione-del-dolore.jpg  Non vorrei sentire più l’enfatismo, ormai stanco, di uno stacco musicale, di un inno. Non funziona più, funziona però con l’uomo mortale Berlusconi. Ivano Fossati me lo voglio sentire a casa, in auto, con gli amici, non più al termine o all’inizio di una assemblea già crepuscolare in età giovane. È patetico. Basta, sono per la fusione a freddo, aspetto animali politici. Non scrivete più libri, lasciateli agli scrittori, non siate artisti, lasciate all’arte il mestiere che gli compete, non siate attori o personaggi televisivi, lasciate spazio a chi lo sa fare, siate politici, ascoltate e state zitti, ascoltate elaborate e AGITE, agite politicamente, guadagnatevi il salario. Usate l’arma sottile della politica, siate intelligenti, la poesia la letteratura l’arte lasciatela a noi oppure mettetevi in gioco senza utilizzare il potere mediatico. Siate politici e basta. Invitate ad uscire i destabilizzatori. La pluralità lasciatela a noi voi pensate a perseguire obiettivi chiari e certi. Per tagliare il capello ci pensiamo noi voi pensate a fare legna e a lavorare per coloro che vi hanno votato. Ma è già tardi, per tante volte è stato tardi, almeno per chi ne ha memoria.

La morte di un uomo chiamato Berlusconi

Febbraio 19th, 2009

antonio-marchetti-spine.jpg.

 

l’Italia è attraversata da profondi temi etici che riguardano la vita e la morte. Questi temi, in effetti, non riguardano i viventi ma i pre-nati e i pre-morti (sospensione in vitro di embrioni ed alimentazione artificiale di comatosi, una vita “tecnica”), qualcosa che si sottrae alla vita come la concepiamo abitualmente e materialmente.

Mi sono chiesto se la morte di un uomo di nome Silvio Berlusconi, un vivente tra gli uomini, potesse produrmi una profonda riflessione sulla morte e la vita dal punto di vista etico. Mi vergogno a confessarlo e pur cercando dentro di me corde sensibili e di civiltà mi vedo costretto a rispondere di no. La morte del signor Berlusconi non produrrebbe in me nessun sentimento di lutto e di perdita. Essendo un uomo che incarna l’Italia contemporanea la sua morte potrei vederla come la morte di una parte dell’Italia stessa e siccome l’Italia che incarna non mi piace potrei provare un senso incoffessato di piacere, addirittura – quasi me ne vergogno – alla notizia di una sua morte. Le sue orrende barzellette sulla morte degli altri  che ama raccontare potrebbero stavolta riguardare lui. Nondimeno la scomparsa di un uomo non cancella le strutture di potere e i sistemi di pensiero che intorno all’uomo si sono ormai create. Ma è pur vero che molti dicono che è proprio quest’uomo a tenere presso di sè la totalità del consenso, del potere pubblico e determinare modelli mimetici comportamentali diffusi.

Dunque la morte di uomo potrebbe rappresentare la morte di un sistema, che potrebbe polverizzarsi e sciogliersi o modificarsi  come un fenomeno termico o chimico. Desiderare la morte di qualcuno è ripugnante e confligge con la coscienza e l’etica, per i cattolici poi è un peccato mortale. Dal punto di vista politico infine desiderare la morte è segno di sconfitta, vuol dire che ormai non si ha più nulla da opporre. Ma se in una utopica ipotesi non si avesse più nulla  da opporre non dico desiderare, ma pensare, la morte di un uomo è l’impensato che potrebbe insinuarsi nella mente di molte persone normali.

Libri Scheiwiller: Alberto Boatto

Febbraio 19th, 2009

boatto-ghigliottina-marchetti.jpg.

 

Il libro “Della ghigliottina considerata come una macchina celibe” di Alberto Boatto, pubblicato in varie edizioni in Europa e in Italia e continuamente rimaneggiato ampliato e riscritto dall’autore (così come inconsapevolmente si ritorna sempre nel luogo del delitto), non rappresenta solo uno dei paradigmi più affascinanti del moderno ma anche una sorta di autoritratto letterario e di percorso dell’autore stesso.

A questo punto, tra le varie stesure, della “machine à décoller” di Boatto non ci resta che decifrarne le varianti, sottili e minimali, azionate da un pantografo che registra alcune trascrizioni restituendole in dimensioni e latidudini sempre in altra scala e diverse. Solo un collezionista mosso da una sorta di “indifferenza appassionata” potrebbe raccoglierle tutte. Il sottoscritto è tra questi.

Tuttavia per un lettore che si trovasse per le mani questa ultima e nuova redazione del testo, potrebbe accadere l’inverso, di andarsi a cercare a ritroso le edizioni precedenti.

Buon divertimento.

 

Antonio Marchetti

La Chiesa e la “vita activa”.

Febbraio 9th, 2009

antonio-marchetti.jpg .

Lembrione umano e l’esistenza inerte del comatoso segnano i due estremi in cui la Chiesa rivendica la sua autorità: la pre-vita (sospesa in vitro) e la pre-morte (sospesa dalle tecniche di alimentazione artificiale).

Due forme di immortalità grazie alla tecnica. Con la  tecnica la Chiesa ha tuttavia un rapporto confuso e ondivago.

Questa Chiesa non intende tutelare la “vita activa” – sfuggita ormai al dominio del potere ecclesiastico grazie all’emancipazione dell’uomo ed alla sua libertà – bensì la “non- vita”, l’assenza delle relazioni col mondo e con altri uomini, l’assenza della scelta e della coscienza individuale.

La coscienza, ci ricorda questa Chiesa, può appartenere agli esseri umani ma la vita appartiene a Dio.

L’agire è ormai spazio dominato dall’uomo ma la vita, come monade biologica , è spazio appartenente al divino. A Dio. 

Eppure Dio, dopo le fatiche della creazione, il settimo giorno si riposò, si ritirò dalle cose create per rimirarle, per vederle agire, per vederle vivere, insomma per vedere cosa aveva combinato. 

In questo week end di distacco, forse troppo breve, il Creatore lasciava le cose create alla loro responsabilità; sospendendosi, facendo un passo indietro, ritirandosi dal creato e ritirandosi da se stesso, forse voleva verificare se ciò che aveva fatto fosse veramente cosa buona e giusta.

Voleva forse che gli esseri si emancipassero da Lui stesso, che crescessero non come figli bisognosi petulanti e piagnoni ma come esseri in grado di badare a se stessi, che crescessero non come opportunisti e ipocriti che in nome della vita astratta calpestassero i valori della vita vera, reale, quella delle relazioni tra gli uomini. 

Forse non voleva che i princìpi  e le leggi che regolano la vita sociale venissero calpestati in Suo nome o per obbedire ai suoi lacché peccaminosi e irrispettosi del figlio suo, che si è pur sacrificato per loro inutilmente. 

È in quel week end troppo breve, in quel distacco  incompreso, in quel riposino sproporzionato e sparagnino rispetto alla titanica impresa della Creazione che dobbiamo riporre i nostri dubbi laici.

  

Israele e la destra

Febbraio 3rd, 2009

antonio-marchetti-gerusalemme.jpg 

Gli ex fascisti oggi al governo, i nipoti delle leggi razziali, sono i più strenui difensori delle ragioni di Israele. Lo si è visto per tutto il mese di dicembre quando Tzahal bombardava la striscia di Gaza. 

Troppo facile, poco impegnativo. 

Nel suo approccio sui temi della “sicurezza”, degli extracomunitari, della diversità, delle libertà individuali e sulle sensibilità etiche questo esecutivo rivela la sua vera natura. 

Alcuni ministri, o sottosegretari, ex fascisti ed ex socialisti, sono affetti da una sindrome da “resa dei conti”, prigionieri del passato, c’è in loro ancora un risentimento che oscilla tra irrisolutezze personali e psicologiche e desiderio di liquidare un pezzo di storia, liquidare una parte del Novecento che ancora odiano. 

Un Novecento da affossare. 

Un governo così immaturo per noi sarà un disastro. Gli italiani che lo hanno votato sono immaturi. Tutte le scelte che questo governo fa di fronte ad emergenze e crisi sono quasi sempre abnormi, fuori scala e istericamente infantili. 

Nella sua posizione unilaterale sul conflitto istraeliano-palestinese (e in conseguenza sulla questione ebraica) questa destra vuol mostrare il suo definitivo risarcimento nei confronti della Storia  – che invece si attualizza sempre, ad esempio nei comportamenti di oggi verso altre comunità. 

Per contro, la sinistra radicale, che gioca infantilmente davanti allo specchio, trova giustificazioni per condannare, boicottare Israele, bruciandone in piazza la sua bandiera nazionale, che significa una sua cancellazione simbolica.

Poi, come al solito, alla televisione, i bambini morti vengono strattonati di qua e di là in modo osceno.

Per la destra esprimere una posizione dura ed autorevole sull’uso delle armi israeliane significherebbe rischiare la trappola su un eventuale svolgimento del tema: antiisraele uguale antisemitismo. La destra è terrorizzata da questa possibilità e di conseguenza non può assumere una posizione indipendente, autenticamente emancipata. Non avendo gli ex fascisti elaborato nulla, a parte una curetta con acqua Fiuggi, si esprimono retoricamente, con parole vuote ed altisonanti sullo sterminio degli ebrei e sulla Shoah solo per autoassolversi.

Invece, e non è un paradosso, il tema viene svolto dalla sinistra radicale e comunista (ove l’antisemitismo è sempre stato presente in certe pieghe) che utilizza accuratamente e crudelmente alcuni termini  come  sterminio, olocausto, nazismo ma rovesciandoli contro gli ebrei israeliani, in difesa dei palestinesi e in alcuni casi anche di Hamas. 

Rimangono le parole dolenti accorate e sagge di David Grossman. Ma gli scrittori sono ascoltati? 

Poesia

Febbraio 2nd, 2009

 

Ho visto che in alcune scuole  professori di Lettere incitano i loro allievi a scrivere poesie, riempiendo i muri di fogli con loro componimenti; concorsi e premi di poesia si alternano in culo al mondo. Se c’è un modo per fare del male alla poesia è questo, se c’è un modo per equivocare sul significato della poesia è in questo suo  uso sociologico-piagnone, pedagogico-educativo, psico-fisio-terapico (e per “fisio” intendiamo anche il gesto fisico, ginnico di appendere al muro gli sfoghi poetici), in questa idea di “aprire le valvole”, in questo dare sfogo a quella parolaccia del “disagio giovanile”. La poesia è arte somma, è distillato della lingua, è spremitura dell’anima, è ferocia in forma di parola, è conoscenza che si fa nulla, è filosofia del verso. Poesia è contenuta in botticelle preziose e rare. Ormai un nemico inesorabile si aggira nei corridoi nelle stanzette nelle cantine nelle soffitte nelle strade dell’arte, un nemico a cui possiamo offrire una resistenza sempre più risibile. Il nemico si chiama facilità. 

 

.

 

 

antonio-marchetti-farfalla.jpg 

Giacometti

Gennaio 24th, 2009

marchetti-giacometti.jpg

Il declino di Montepagano

Dicembre 26th, 2008

Nel luglio del 2007 avevamo scritto di Montepagano e della manifestazione Trasalimenti.Sul quotidiano il Centro di qualche giorno fa vengono riportate pessime notizie su questo antico borgo: negozi bar e botteghe chiudono. Il paese si spopola.Il fenomeno è perfettamentte inscritto negli sconnesi rapporti di scala che la maggior parte degli abruzzesi – paradigma italiano oltre che locale – hanno con i luoghi ed il concetto di “progresso”.La grandiosità e l’illimitato animano la furia futurista di questa regione. La città commerciale, il grande museo all’aria aperta di arte contemporanea, l’infaticabile riscatto da un innato senso di inferiorità e fatalismo che si materializza nel linguaggio dell’iperbole, della maestosità, dell’onnipotenza, della retorica megalomane (megalò è il nome di una famosa città commerciale) appartenente all’ordine gigante lasciano dietro di sé le microstorie, le miniature di vita quotidiana, spazzano via le innumerevoli isole di Lilliput che costituiscono la ricchezza dell’Abruzzo, i veri monumenti all’aria aperta che, se valorizzati come ready-made, con pochi investimenti, sono già contemporanei, costituiscono già un museo, europeo, se svincolati da quei deliri “europeisti” marinettiani da villan rifatto. Bisognerebbe ripartire dai mattoncini Lego, un mattoncino alla volta, pensare non al futuro ma alla durata, non alla contemporaneità (o simultaneità) ma al presente.Conosciamo il ricatto: sei contro lo sviluppo, sei conservatore, sei nostalgico, non comprendi le sfide globali, sei marginale, sei minoritario, sei “perdente”, sei “rompiscatole”, sei inutile e inattuale.Gli artisti possono fare molto in questo senso, non tanto inaugurando fontane e sculture nel grande festival dell’arte abruzzese, ma inaugurando una stagione del silenzio. Un silenzio dialogante. Un giorno vuoto. Un lungo shabbat. Inerpicarsi a Rocca Calascio o a Santo Stefano o a Montepagano e stare zitti, non fare nulla, astenersi. Astenersi con passione.Antonio Marchetti ©