Caprera, Garibaldi

Agosto 5th, 2009

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Caro Presidente Giorgio Napolitano

 

La Sardegna più che un’isola pare un bonsai di continente, ci sono montagne dolomitiche in scala 1:3. Tale propensione alla grandezza in un mondo lillipuzziano  è confermata dalla monumentalità nuragica. A Caprera, nella casa-hacienda di Giuseppe Garibaldi – nostro eroe nazionale non si sa per quanto – c’è la miniatura d’Europa, e del mondo. Dalla costruzione svizzera al padiglione prefabbricato inglese, dalla tecnologica poltrona da campo ripiegabile sino al girarrosto a carica meccanica e alla macchina per il burro, qui, nella sua casa, si respira aria moderna. Ma proprio qui, la curiosità e l’originalità di quell’eroe patrio sembrano arrestarsi, lasciando noi fermi, come il suo mulino, e paradossalmente più indietro. La guida accende la luce della stalla e rischia di rimanerci fulminata con i vecchi interruttori ed i cavi elettrici a vista; non conosce l’inglese ed il mio collega turista non può capire nulla perchè la signora che ci fa da guida non conosce l’inglese; a molte nostre domande non sa rispondere. Le fotografie e i documenti messi a parete non sono leggibili perchè un vetusto e retorico cordone antigaribaldino ne impedisce la vista. Non si può fotografare nulla. Non c’è una piccola libreria dove acquistare qualche libro o riproduzione fotografica.

Qui una volta tanto ho avuto il desiderio del kitsch, acquistare una statuetta di Garibaldi da sistemare tra i miei libri.  Non ce ne sono. Padre Pio in Italia vince sempre. Centro metri fuori c’è un piccolo bar fermo agli anni Sessanta (del Novecento), confesso che mi piace sgarrupato com’è, che vende fazzoletti rossi con l’immagine dell’eroe dei due mondi in decalcomania. Ma non sto facendo una gita vintage, sto nel luogo che ha a che fare con qualcosa di fondativo, che meriterebbe di più. Dunque tra due anni si festeggerà il centocinquantesimo anniversario dell’Unità. A Caprera si farà qualche restyling, forse si ripristinerà all’ingresso della casa la guardia d’onore, per un po’, pompa magna per l’occorrenza, all’italiana, ma la memoria vera che si esprime nella custodia e al decoro di un luogo fondativo nel giorno dopo giorno credo che non l’avremo mai.

 

Con cordialità e stima

il suo connazionale

Antonio Marchetti

Italiana

Luglio 28th, 2009

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Pare che le cose vadano avanti in qualche modo.

Dove si vada non saprei dire con razionalità.

In questo incessante procedere italiano non vorrei proiettare una condizione soggettiva, una percezione soggettiva, su una realtà che magari va alla grande. Coloro che definiscono il nostro precipitare non conoscono la perenne catastrofe, l’ansia continua, l’incessante fallimento che sempre ci accompagna nel nostro procedere. Poco conoscono la nostra sconnessa e quasi impossibile narrazione storica.

Siamo minori; ci piacciono i dettagli o cose che nessuno osserva ( ma prima di noi le osservavano?).

Dio non è nei dettagli. Nei dettagli sta l’uomo.

Qualche uomo. Che si fa carico dei non ancora uomini.

Allora, dove andiamo? Dove andremo lo possiamo leggere dal come stiamo.

Ma come stiamo non lo dice quasi nessuno.

Tra musei e strade d’Europa

Luglio 17th, 2009

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Nel centro storico pochissime auto, non si parcheggia in strada, le strade e i marciapiedi sono per i pedoni e le bici. Queste vengono fatte riposare a migliaia nei sotterranei vicino alla stazione. In albergo ti offrono un ticket illimitato per girare sul tram in città e fuori. Non vedo negozi di cellulari e mi pare che gli abitanti ne fanno un uso normale e discreto. Molte librerie dedicate all’infanzia, con tavoli e poltroncine per leggere prima di acquistare e giochi per i bambini. Negozi elegantissimi che sembrano templi innalzati al dio tabacco, in effetti qui puoi fumare piuttosto liberamente ed in alcuni locali puoi persino assaporare i mattutini valori antichi: caffè, giornale, sigaretta, tutto insieme. Nelle antiche democrazie, ricche democrazie, si può essere tolleranti. Mi torna alla mente quell’ordinanza del comune di Napoli che proibiva di fumare nei giardini pubblici in piena emergenza dei rifiuti e respirazione di diossina quando vi davano fuoco. Prendiamo dagli altri le cose buone per darci una facciata ma restiamo idioti. Ci manca sempre la sostanza.

Ci sono qui molti bei musei e collezioni superbe ma non c’è quello snobismo di chi ha “scoperto” la cultura e che alla fine non gli è propria, al naturale voglio dire. Sì, sono un po’ “aristocratico”, ma da autodidatta la cultura mi è servita a vivere, ad essere più che apparire, per usare un usurato slogan.

Siamo a Basilea. La Svizzera non fa parte dell’unione europea, chiederà qualcuno. Non rispondiamo.

Quando ritorniamo a casa, è più forte di noi, non ce la facciamo ad essere diversi da quello che siamo. Ogni volta che ci spostiamo nel Nord Europa ritorniamo con la coda tra le gambe e con dure lezioni difficili da smaltire. Qual’è dunque la ragione che ci consente di stare ancora in Europa?

La ragione forse sta nel fatto che in Italia ci sono alcune Regioni, tra le quali forse quella in cui vivo, che giustificano l’inconsistenza di altre? Ancora, con fatica e affanno crescente, c’è una parte d’Italia che si fa carico di tutta quell’altra, di quella parte inerte e parassitaria, inchiodata a modelli antropologici che appaiono immutabili, con gli stessi tormentoni sociologici della mia adolescenza – l’ultimo, le centinaia di migliaia di giovani che emigrano dal sud al nord d’Italia.

Sperpero di intelligenze ed energie vitali utili al sud, dicono i politici progressisti. Fanno benissimo, dico io. Anzi, spostatevi ancora più a nord ed andate a costruire l’unica cosa che ci rimane di bello e utile: Diaspora Italia. Superata una certa età sarete catturati dal retaggio mimetico e dalle abitudini e non avrete più lo sguardo del distacco. Ritornano gli anni Cinquanta, siamo ancora nel lungo dopoguerra e forse si ricostituirà la famosa Cassa per il Mezzogiorno. Il dopoguerra resiste solo da noi.

Il nostro vecchio professore

Luglio 11th, 2009

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«Lei rimanga se stesso, sia fedele a ciò che è veramente. Le cose sue che mi manda le leggo volentieri. Lei deve decidersi. C’è in lei una tensione lirica, mascherata troppo da problemi di forma e stile, che dovrebbe decidersi a coltivare. Mi ha fatto piacere rivederla, adesso mi scuso che prendo posto, sono già in ritardo.»

 

Vecchio professore, rimarrà sempre tale. Chissà come lei, in tutti questi anni, sia rimasto se stesso, “fedele a ciò che è veramente”.  Come accade spesso si danno consigli rischiosi a coloro che rappresentano la possibilità di un volo a cui noi abbiamo abdicato. Il vecchio professore, sempre più sovente, parla di se stesso quando si rivolge agli altri, a me.

Il vecchio professore non dovrebbe più presentarsi in pubblico, “parlare”, in pubblico, andare in televisione. Ciascuno di noi porta in sè un “proprio” secolo e dovrebbe trarne le debite conseguenze.

Anche quest’anno la nostra splendida città propone il Festival…

Luglio 3rd, 2009

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Ai Festivals della Cultura, ai convegni ed alle esposizioni d’arte ci si va con qualche attrezzatura; o no?Se ci vado devo capir qualcosa su quell’evento, giusto? Chi può costruire una parte almeno di questa attrezzatura è la scuola, mi pare. Ma se la scuola smette di “costruire” con chi parlerò di quel Festival? Già, parlerò con chi ai Festivals ci va per farsi vedere, e sottoporsi ad una rapida endovena di cultura sotto le mutande. I Festivals aumentano con la diminuzione dell’intelligenza nazionale, in modo tale che tutto può coesistere nella moltidudine senza significati; ma non è ancora così. C’è chi ha studiato e studia ancora, che vive, ancora, osservando il prossimo,  e che ha un barlume di curiosità del mondo reale.

Il Partito Democratico, qualche piccolo libro e i lettori di scambio.

Luglio 2nd, 2009

 antonio-marchettisingle-luminosi.jpgNon so più a chi parla il Partito Democratico. Non a me, almeno per ora. Nel frattempo mi sono riletto Corrado Alvaro, “L’Italia rinunzia?”, un libricino della Sellerio che lo scrittore scrisse nel 1944 e pubblicato un anno dopo. Ho accompagnato questa rilettura con un altro piccolo libro di Guido Crainz, “L’ombra della guerra”, piccola antologia critica dei nostri esordi. Io consiglierei la lettura di queste due piccole cose per seguire il Partito Democratico. I giovani, che badano allo “spessore”, troveranno questi libretti di leggerezza accettabile. Ma cosa c’entra il dopoguerra con la contemporaneità? L’assenza di lettura critica degli italiani di allora è la stessa di oggi, mentre noi, sparuta minoranza single che non va in televisione e che non ha voce pubblica ( a parte questo discutibile “journal”), dobbiamo riassistere agli errori periodici, alla retorica di un eterno ritorno e all’ignoranza. Una ignoranza che non si riscatta simbioticamente circondandosi da artisti e intellettuali vip che badano più al fatturato narcisistico ed economico che ad una appartenenza (labile e ondivaga, all’italiana). Ammettiamolo, la generazione degli oltre cinquantenni e sessantenni ha fallito da quelle parti, salvando se stessa naturalmente, si è ben autoalimentata. Dell’Imperatore non parlano mai, vivono nell’astrazione, nella rappresentazione tautologica, schiavi dello specchio. Mi appaiono perdenti. Perchè si propongono già da perdenti. Non hanno capito quasi nulla degli ultimi dieci anni.antonio-marchetti-camera-verde-1988.jpg

Riporto il testo di un articolo apparso sul Corriere della sera di oggi, a firma Claudio Magris, nel quale si denuncia il rischio di una possibile abrogazione dei lettori di scambio dalle università italiane.

 

In Italia esistono lettorati di scambio di lingua ebraica in 7 università, Torino, Venezia, Bologna, Pisa, Firenze, Roma e Napoli. Essi svolgono un ruolo fondamentale nella diffusione della lingua e della cultura ebraica così com’è parlata e vissuta in Israele oggi. La loro scomparsa sarebbe un colpo durissimo che allontanerebbe ancora di più gli studenti italiani da un mondo vivace e intellettualmente ricchissimo come quello israeliano.

 

Ci auguriamo che le università italiane vogliano rivedere questa loro decisione e che i lettori di scambio di lingua ebraica possano continuare a svolgere il loro ruolo con ancora più entusiasmo e incisività, perché la bella cultura israeliana, che ha prodotto scrittori premiati e apprezzati in tutto il mondo come Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua ( per citare solo i più famosi), possa essere sempre più conosciuta e studiata in Italia.

 

 

Minna Scorcu

Coordinatrice Ufficio Culturale

Ambasciata di Israele

Via Michele Mercati 14 – 00197 Roma

Tel. 06.36198513

Fax 06.36198555

E-mail cultura@roma.mfa.gov.il

 

 

ABOLITI PER MANCANZA DI FONDI NONOSTANTE LA NOSTRA ARRETRATEZZA LINGUISTICA

I lettori stranieri cancellati dall’università

Sarebbe triste lasciar morire, per mancanza di fondi, iniziative spesso, non sempre, creative e stimolanti

L’ Università italiana, già perico­lante come un edificio colpito dal terremoto, riceve un’ulteriore vigo­rosa spallata dalla legge 6.8.2008 n. 133, art. 24, che, abrogando una legge precedente in vigore da anni, abolisce i lettori di scambio, i quali esercitano una funzione essenziale per l’Universi­tà stessa. I lettori di scambio sono i let­tori di madrelingua straniera — tede­schi, francesi, inglesi, spagnoli e così via — che vengono in Italia per inse­gnare ai nostri studenti la loro lingua.

Analogamente i lettori italiani si recano in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna o in altri Paesi a insegnare l’italiano. Non occorre una particolare genialità per capire come sia necessario o quantomeno estremamente utile, per apprendere ad esempio l’inglese, impararlo da un insegnante di madrelingua inglese. Non occorre nemmeno una particolare genialità per rendersi conto di quanto sia importante, sempre e ancora di più oggi nella realtà europea in cui viviamo, la buona conoscenza delle lingue. L’Italia, così creativa su tanti fronti della cultura, è invece sotto questo profilo alla retroguardia; nell’Unione Europea siamo, in genere, gli ultimi della classe quanto a conoscenza delle lingue; spesso anche persone colte e rappresentanti politici sono goffi e impappinati, quando incontrano colleghi di altri Paesi europei, come Alberto Sordi in quel vecchio film in cui, per diventare vigile urbano, deve superare un esame di francese, non sa dire in quella lingua «mia zia» e cerca di cavarsela dicendo «ma zie».

Quest’arretratezza linguistica non data da oggi, ma ha una negativa tradizione alle proprie spalle, di cui è colpevole pure una certa cultura – anche alta ma retorica, opposta alla sana concretezza anglosassone – che in passato ha privilegiato, negli studi letterari, l’indagine estetica – certo essenziale e gloriosa – sulla conoscenza pratica della lingua in cui sono scritti testi immortali. Carente era soprattutto, anche in molti profondi cultori di letteratura capaci di leggere i testi ossia dotati di una buona o anche ottima conoscenza passiva di una lingua, la padronanza della lingua parlata. L’importanza di quest’ultima per orientarsi nella realtà politica, economica, culturale e sociale di un Paese dovrebbe essere più che evidente. Lo status dei lettori di madrelingua straniera ha bisogno non certo di essere cancellato, bensì semmai rafforzato e soprattutto definito con chiarezza, perché in passato la sua indeterminatezza ha provocato disagi: l’incertezza dei loro compiti, l’insufficienza e i ritardi nella corresponsione dei loro emolumenti hanno provocato uno strascico di proteste più che giustificate, pretese talora confuse e immotivate e vistosi processi. Indebolire il già debole livello di competenza degli studenti italiani in un campo così importante è un atto d’incredibile miopia che non ha a che vedere con scelte politiche di destra o sinistra. Le Ambasciate dei Paesi con i quali vigeva l’accordo di scambio dei lettori di madrelingua — Francia, Austria, Canada, Germania, Polonia, Spagna, Belgio, Israele, Portogallo, Paesi governati da partiti di centrodestra come di centrosinistra — hanno protestato vivamente presso il nostro ministero, ribadendo l’importanza del lavoro culturale dei lettori ed esprimendo stupefatta preoccupazione.

D’altronde il nostro ministero non ha da temere, da parte loro, misure di ritorsione nei confronti dei nostri lettori che insegnano italiano nei loro Paesi, i quali non si sognano di prenderle perché sarebbero autolesive, come nella famosa barzelletta del marito che si evira per far dispetto alla moglie. L’abolizione dei lettori di madrelingua viene motivata con l’urgenza economica di risparmiare, viene messa in conto alla crisi. Risparmiare, e dunque tagliare spese, è certo necessario. Ma si possono scegliere i rami da tagliare, sempre a malincuore ma col senso della gerarchia d’importanza. Per restare nell’ambito della cultura, ad esempio, vi è in Italia una fioritura di Festival di vario genere, convegni, eventi che costano non poco.

Sarebbe triste lasciar morire, per mancanza di fondi, iniziative spesso— non sempre — creative e stimolanti, ma se si deve scegliere è meglio — o meno peggio — cancellare Eventi anche di grande richiamo piuttosto che indebolire istituzioni (come la scuola, gli ospedali) la cui prosaica ma fondamentale attività quotidiana non finisce a grandi titoli sulle pagine dei giornali, ma è ben più importante per la vita generale del Paese. Appartengo a quella corporazione, abbastanza numerosa, che ha occasione di frequentare, non malvolentieri, quei Festival e quegli Eventi, ma dobbiamo tutti sapere che la civiltà di un Paese consiste più nella qualità delle sue attività e funzioni concrete che in pur suggestivi fiori all’occhiello. La conoscenza delle lingue fa parte di que­sta normalità fondamentale. Indebolirla significa, in una classe di studenti europei, venir messi all’ultimo banco col cappello dalle orecchie d’asino; significa voltare le spalle all’Europa e favorire un’autarchia culturale oggi impensabile. Speriamo non si finisca, un giorno o l’altro, per sostituire, nelle nostre università, i lettori di madrelingua inglese o tedesca con lettori di madrelingua bergamasca o triestina.

Claudio Magris02 luglio 2009

Dopoguerra

Giugno 30th, 2009

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Le guerre possono essere brevi, i dopoguerra lunghissimi.
Quando finisce un dopoguerra?
Il Muro venne eretto nel 1961, 16 anni dopo la fine della seconda guerra.
Viene demolito 28 anni dopo, dieci anni fa.
Il dopoguerra, nella sua insolubilità, agisce ancora nei miti contemporanei italiani, nelle forme tecnologiche e mediatiche (era il fascismo a far vibrare gli animi dei giovani con canzoni e seduzione mediatica).
Il dopoguerra non finisce mai e “dopo” assume un significato fittizio e atemporale.
Forse, per noi, quella guerra, ha solo “sospeso” caratteri e peculiarità che il “dopo” ha rimanifestato in forme più organizzate e decise, senza più alibi etici, ormai crollati definitivamente, siano essi laici che cristiani.
Il dopoguerra, per molti italiani, è un po’ come gli esami eduardiani che non finiscono mai o, per fedeltà all’autore, una nottata infinita.
Eppure, tra stragi attentati guerra mafiosa depistaggi corruzione sembrava apparire nei primi anni Novanta una certa aria nuova. Ma ci eravamo dimenticati del vintage neo fascista e del marketing, eravamo distratti, qualcuno guardava solo i tribunali.
La figa ci piaceva ma l’uso mediatico del consenso politico attraverso la figa dev’essere sfuggito (dopo quasi vent’anni sfugge ancora ad alcune vecchie trombone della sinistra).
Eliogabalo in ascesa ha ampliato la figa televisiva nella vita reale.
Vince, con la figa si vince.
I moralisti attuali che condannano la presenza parlamentare di donne, o di ministri al governo, che provengono dal mondo di Eliogabalo dimenticano la famosa battuta di una onorevole pornostar: quando entro nel parlamento tutti i membri si “alzano”.
Wladimir Luxuria non aveva certo esperienze “politiche”…
Chi ha iniziato a immaginare il Parlamento come una estensione della “Dolce vita”?
Non importa più. Questo è il dopoguerra infinito italiano.

Simonetta Melani su “Il grande vetro”: Gineceo di Antonio Marchetti

Giugno 29th, 2009

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Simonetta Melani

Stringimi ma non troppo

 

Geniale. Questo ho pensato dell’immagine di copertina dell’ultimo libro di Antonio Marchetti, Gineceo. Occhio, sorriso, baffo ammiccante, abbraccio o animaletto palpitante nel verde morbido carnoso anello-nido fra le sue punte terminali che son radici e frutto o testa e piedi di minuto cordoncino ora bambino, ombelico, talco, culla, profumo di legno amarognolo, selvatica gioia rossa dei campi e altri giochi con altra erba in altro modo: tutto questo è il nodo di Bettina.

Si tratta di un nodo che è richiamo ad arte, frutto di gioco di lingua e di palato, un gioco infantile e quindi ironico, erotico, ma anche eroico perché non a tutti era ed è dato saperlo fare come lei lo faceva: ”Dalla ciotola prendeva una ciliegia, staccava il picciuolo, se lo metteva in bocca e te lo restituiva sulla punta della lingua annodato…”. E Marchetti, che è amico da tempo, artista e scrittore da sempre, privatamente poi mi scrive: “Mia nonna me lo faceva su richiesta (dovevo pregarla sino a ossessionarla) ma ti assicuro, lo faceva. Quel nodo, come puoi capire, è paradigma familiare, psicologico, simbolico. È nodo femminile al di là delle elucubrazioni erotiche adolescenziali del narratore. C’era in quel gesto della nonna qualcosa di virginale, di puro e incontaminato, nonostante tre figli ed una sessualità subita più che vissuta. Nodo virginale, sei d’accordo?”. Come no.

Ed è in questa scia di purezza che si muove il libro, ambientato in una città sul mare, città che soprattutto è casa, anzi case; famiglia anzi nonfamiglia; amici ma anche crude solitudini, insomma lo scorrere della vita di un ragazzino negli anni Sessanta in un paese/città dell’Abruzzo sull’Adriatico che si fa paese/città del mondo. Autobiografico? Non del tutto. L’autore, nato a Pescara, ci avverte maliziosamente che “fatti e personaggi sono immaginari”.

Il libro si annoda e si snoda, appunto, in un paesaggio simbolico fatto di amori, tradimenti, prostituzioni, inghippi, sogni, sacrifici, piccole mediocrità, sorprendenti tenerezze e nefandezze, canzonette e visioni che riemergono da un passato adolescenziale provincial/universale, da un quartiere popolare a mezz’Italia che è l’Italia intera e che impantanandosi si arranca verso l’ambita, piatta architettura d’una periferia anonima ma finalmente borghese come dio comanda: salottino buono, tinello in formica, mangiadischi e annessi e connessi, proiezione di un benessere che sarà come promette: inequivocabilmente e volgarmente traditore. Insomma, benvenuti in casa nostra ci diciamo.

E ci sguazziamo, e da lontano ne sorridiamo addirittura, con punte di nostalgica beota beatitudo, noi, vecchi bambini d’allora, come non ricordare? E Antonio tira fuori la lingua e ne fa linguaccia con buona, sottilissima cattiveria umoristica, perché sa che in fondo ciò che lo salva, al di là di tutto e tutti, è questa sua arguta ironia che ha messo radici in questo paesaggio umano a cui si adegua con una scrittura che come un surf ora cavalca l’onda fra frizzanti evanescenze e ora s’inabissa in cupi abbattimenti esistenziali: un’adolescenza che si fa stile. Come eravamo? Così, come Marchetti, ci dipinge. Tu gratti quel che non ti veste della narrazione e magicamente vieni fuori tu, quello che tu eri allora; vieni fuori proprio tu, bambino di primo pelo, generazione anni Cinquanta/Sessanta, fra il cinema, le figurine, i primi pruriti, il giubbocsse e la televisione condominiale, pane burro marmellata e quando calienta el sol.

Leggendo queste pagine sì, gratti e vinci sempre. Non puoi uscirne fuori senza un sorriso, che è tuo, solo tuo. Non puoi andare a diritto, da cima in fondo, senza soste: devi fermarti, chiudere libro e occhi, sorridere al tanto di ieri e al nulla che ora è e ricominciare: fermate d’obbligo tue, solo tue.

Ah, i buoni, cari parenti-serpenti della nostra convulsa adolescenza, che stava in bilico fra la saggezza contadina, cattiva, feroce, rude ma umana, e un futuro da cartolina a colori, sventolato come una sicura vincita al lotto, finalmente. Che si vince? Un’utilitaria presa a rate, magari una cinquecento elle che sta per lusso, poltroncina ribaltabile, finestrino aperto con radiolina, color blu notte, decappottabile pure, per vedere il cielo, blu nel blu, su una strada lanciata verso il chissà dove. Dove?

Un baiser da qui, Antonin, ta Simone.

 

Antonio Marchetti, Gineceo, Edizioni Il Filo, Roma dicembre 2008, pp. 123, € 14,00

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Il grandevetro è un bimestrale di immagini, politica e cultura. Esce immancabilmente da trentadue anni e si regge solo sul volontariato e sugli abbonamenti.

 

Il Grandevetro – Via I Settembre, 43/b – 50054 Fucecchio (FI) – ilgrandevetro@alice.it 

Passare al bosco o l’Isola delle Rose?

Giugno 25th, 2009

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Italia calcificata; già dieci anni fa una ultima dinamizzazione possibile, ora è sostanza inorganica che si aggrappa al passato. Saluti fascisti, faccetta nera cantata in qualche scuola in culo al mondo (fare mondi), giovani invisibili e muti, pre-iraniani, il femminile in offerta, come sempre. Non siamo fermi ma in retromovimento progressivo. Svergognati ma senza vergogna.

 

Marina centro a Rimini: tutti i negozietti vendono le stesse immagini: Mussolini e gagliardetti littori.

 

I bambini e i ragazzi vogliono il fuciletto nelle colonie estive del ministro della gioventù, e anche la divisa.

 

E noi? La nostra generazione? La memoria è una nicchia, una trappola o un fallimento? E il presente, dov’è, qual’è? C’è il successo di chi marcia questo presente ma non ci sarà memoria per ridimensionarli, mentre l’insuccesso di oggi sarà ANCHE l’insuccesso di domani. Cominciare a tener presente quella famosa ipotesi di Ernst Jünger, oggi attuale? Passare al bosco?

 

O ricostruire al largo del mare di Rimini l’Insulo de la Rozoj (l’Isola delle Rose) dell’estate del 68?

 

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Tra gli articoli sul caso Berlusconi pubblicati da altri giornali britannici, spicca poi la vignetta del Sun: un parcheggio pieno di limousine per il summit del G8, ciascuna con una bandierina della nazione che rappresenta sul cofano; quella italiana è letteralmente ricoperta di giovani ragazze maggiorate e seminude, che lavano la macchina brindando con calici di champagne.

(Enrico Franceschini, La Repubblica)

L’imperatore e la latrina

Giugno 23rd, 2009

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Ricordate Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde) con il trucco che si scioglieva sulla faccia? Il film era “Morte a Venezia” di Luchino Visconti. 

Nella storia attuale di minorenni e puttane (escort) dell’Imperatore pop italiano non c’è la musica di Gustav Mahler ma quella di Mariano Apicella, le cui canzoni sono scritte dall’Imperatore in persona.

La pappa arancione del trucco cola dalla faccia della scultura pop, ormai vecchio e patologicamente irrecuperabile. 

Qui ci vuole Artaud alla matriciana: Eliogabalo muore nella piscia di una latrina, l’Imperatore pop, peggio di Mussolini, finirà nella latrina mediatica che lui stesso ha alimentato, nei giornalacci mondani che gli sono congeniali. E dopo? Cosa accadrà? Gli orfani che faranno? Qui non c’è un corpo esposto su cui sputare e infierire come a Piazzale Loreto. Non c’è stata una guerra miserabile ma solo una facile manipolazione di massa. I servi cosa faranno? E gli oppositori, pavidi e dubbiosi, cosa faranno? Sarà peggio, dopo?Â