Alberto Giorgio Cassani:«architectum elegantem omnis malitiæ»

Gennaio 12th, 2010

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«Architectum elegantem omnis malitiæ». Che lo si traduca con “malizia” o con “cattiveria”, la frase pronunciata da Momo nell’omonimo, straordinario libello di Leon Battista Alberti, nasconde senz’altro «l’autoironia con la quale Alberti rappresenta il proprio ruolo di esperto e di divulgatore di architettura» (Massimo Bulgarelli). Ma non solo. La proposizione racchiude anche la consapevolezza di Battista di essere l’unico, fra gli architetti dell’epoca, a poter coniugare conoscenza dell’antico e nuova progettualità (come dirà nei Profugiorum ad ærumna libri III, quella «faccenda da niuno de’ buoni antiqui prima attinta»).

In questo esercizio progettuale, l’Alberti utilizza due diversi linguaggi – così come fa quando scrive i suoi testi –: il sermo latino, colto, all’antica, ed il sermo volgare, legato al genius locidella città in cui deve realizzare le sue architetture “sperimentali”.

Che presentano diversi livelli di comprensione a seconda del pubblico che le guarderà. E se tutti sono dotati della capacità di cogliere cosa è bello e cosa non lo è, pochi però sono in grado di comprendere in pieno il significato profondo delle sue architetture. L’architettura albertiana, inoltre, è “artificio”, se confrontata con la natura – grande tema albertiano, quello del rapporto tra le due –, ma artificio necessario, perché anche in natura, spesso, non si ritrova la perfezione. Ma per ottenere questa venustas occorre usare dei “trucchi” (gli “ornamenti”), che rendono l’architettura una “maschera” indispensabile all’uomo, finché è in vita. Ogni maschera, infatti, cadrà, soltanto una volta giunti alle rive d’Acheronte (come afferma Caronte nel Momus). Tutto ciò sarà mostrato attraverso l’esemplificazione di tre opere dell’Alberti: il tempio Malatestiano, palazzo Rucellai e Santa Maria Novella.(Alberto Giorgio Cassani)

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Il distacco ben temperato.

Gennaio 9th, 2010

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Certo è dura la scuola per i nostri (perchè mai “nostri”?) giovani.

Fanno fatica per quelle cose che per noi dell’altro ieri era quasi relax.

Pensieri della possibilità occupano i cervelli dei (vostri?) ragazzi.

La ricerca della possibilità rinuncia, o non la capisce, all’essere ora, nel presente, a dire in forme non omertose e non vili ciò che hanno da dirci, a noi, a me, a quelli di ieri l’altro.

La loro ricerca delle “possibilità” segue i sentieri dell’illimitato contemporaneo ove possibile e impossibile convivono, rendendo vana la ricerca stessa.

Questo “non sapere”, purtroppo e molto spesso, viene come “tradotto” ( e dunque tradito) dagli adulti (siamo sempre noi di appena un momento fa storico). Già, i padri e le madri. Vogliono prendere in mano il volante di quella splendida fuoriserie chiamata “possibilità“, per i figli, ma sostituendosi ai disegni di quel regno animale necessario e cruento che li chiama.

Poi, se i figli non si allontaneranno e non seguiranno più le leggi naturali del distacco, saranno i loro padri e le loro madri a punirli, rovesciando loro l’orrore di una vecchiaia (in un universo sociale ove la morte è differita ad oltranza), spandendo l’olezzo chimico della morte che circola nella casa, quella ove si torna sempre.

Le possibilità dunque possono restringersi e rattrappirsi, ancora, nell’unica e ultima casa che si chiama famiglia.

Il femminile in questo caso offre coinvolgimenti vertiginosi, confliggendo continuamente con le sponde del possibile e del non possibile.

I giovani contemporanei dovranno prima o poi stilare un contratto nei rapporti tra generazioni…  se vorranno scegliere la via del distacco.

La miniatura di Milano ha colpito il Capo

Gennaio 8th, 2010

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L’evento del ferimento del Capo si diluisce nello spazio mediatico, viene assorbito e metabolizzato troppo in fretta. Dobbiamo acciuffarne il senso, e se non si tiene stretta una qualche analisi si lascia spazio alla manipolazione storica. Come nel caso di  Bettino Craxi: esibizione di un martire, eroe, vittima sacrificale.

Se non la trascriviamo oggi la Storia, con qualche strumento freddo e distaccato, quasi chirurgico, accadrà lo stesso per colui che si è autodefinito l’Unto del Signore.

Una miniatura del simbolo di Milano ha colpito il Capo. Oggetto banale.

Poteva essere un piccolo panettone in bronzo ma si tratta di un simbolo temporale, per quanto accettabile: la sua diffusione si limita alle feste natalizie e poi scompare per tutto l’anno.

Il Duomo invece rappresenta storicamente la città di Milano.

È stata dunque una miniaturizzazione di Milano a colpire il Capo milanese.

Il signor Tartaglia è uno psicolabile pensoso, che sa maneggiare i simboli, sa che i simboli sono armi, anche se in questo caso ha pericolosamente accorciato le distanze simboliche, a suo danno e a nostro danno.

Se il gesto viene valutato come l’atto poco significativo di una persona disturbata il suo disturbo tuttavia disegna un percorso logico impressionante.

Il signor Tartaglia ha espresso il suo odio per il Capo e questi, specularmente, ha sentito il colpo, rispondendo con vaneggiamenti ideologici sull’amore in un rovesciamento mimetico immediato, quasi animale.

Il colpo non è psicologico, visto che la “vittima” sacrale che lo ha ricevuto ha risorse su questo versante pressochè illimitate.

È fisico, corporale, è uno sfregio all’equilibrio chirurgico-estetico, e soprattutto il colpo ha prodotto dolore, realtà. Forse aperitivo di un incubo di realtà che irrompe nell’irreale corpo porno-pop.

Il colpo ha prodotto anche una sospensione temporanea dell’esposizione  mediatica del Capo, al di là di quella ostensiva immediata e sanguinolenta subito dopo il ferimento di cui ha parlato Marco Belpoliti – ma anche prima ne abbiamo accennato in forma letteraria  in questo  stesso Journal –  uno spazio vuoto occupato da figure minori, orfane, non per questo meno pericolose, anzi, portatori del classico complesso da clone e dunque aggressive, in preda ad un delirio di perdita e, per quanto momentanea, precarietà.

Purtroppo il sangue del Capo rimarrà una icona che rimanda ad altre, per chi ne ha memoria.

Il ricamo, su questo, lo lasciamo libero.

Va comunque detto che al tramonto del Capo seguirà un pasto cannibale.

Laboratorio Roma

Dicembre 24th, 2009

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L’immagine che vedete qui sopra è l’immagine “plastica” di un muro contemporaneo. Di fronte c’è una diga edilizia che ricorda i giochi postumi di Aldo Rossi. È il nuovo museo romano progettato dall’architetto anglo-iraniano Zaha Hadid, il MAXXI, nuovo acronimo che sta per museo nazionale delle arti del XXI secolo, in via Guido Reni, che dopo dieci anni dal bando di concorso è stato ultimato. È stato già inaugurato, ma è chiuso. La “vera” inaugurazione ci sarà nella tarda primavera. Nel bar di via Flaminia il barista lo considera bello e dice che lo hanno inaugurato già quattro volte mentre una studentessa dichiara che è un vomito di cemento che deturpa il paesaggio (sic!). La vista è quasi occlusa, il museo è avvolto da recinti zincati alla moda, quei grigliati che ricordano le calze erotiche femminili che oggi “smaterializzano” l’architettura ma stimolano l’immaginario. Fotografare questo manufatto è stato per noi difficile. Ma così come i mega oggetti (arredamento?) della Hadid non potevano essere toccati alla Biennale di architettura veneziana (nonostante il tema indugiava sull’antica parola “fruizione”) allo stesso modo è arduo e difficile fotografare questo museo che, vogliamo sperare, si ritiri in splendidi interni. Le dichiarazioni dell’architetto circa i suoi innumerevoli viaggi a Roma e sulle sue ricerche di impatto urbano rimangono, appunto, pure dichiarazioni. Forse la Hadid è architetto di interni. E gli interni vanno bene in qualsiasi luogo del globo terrestre. Ma innalzare ancora “muri” a Roma, per quanto si possa rendere fluido il cemento e “cristallizzare” la matematica, ci lascia perplessi. Ci penseranno gli architetti globali  a depistare le nostre impressioni pessimistiche nella nuda vita italiana, e romana, in questo fine decennio del XXI.

Antonio Marchetti a Cansano (AQ)

Dicembre 21st, 2009

 

Il paradigma dell’emigrazione ispira questa installazione di Antonio Marchetti espressamente realizzata per Cansano. Un paradigma del moderno e della contemporaneità raccolto in una pittura tridimensionale fatta di abiti, stracci e oggetti “narrativi” sulla quale si sovrappone una videoproiezione archeologica- antropologica; mentre il sonoro comprime lo spazio pressurizzandolo, in ossessivo e ripetitivo leit-motiv acustico che martella la mente e le memorie. Non si pensa solo alle emigrazioni di almeno due terzi del secolo XIX, gli italiani del ceto medio alfabetizzato, degli esuli, dei patrioti e  degli aristocratici che in America o in Inghilterra fondarono riviste e imprese. Qui ci si riferisce soprattutto ai quattro milioni di emigranti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, spesso analfabeti, sino a quelli intervistati da Mario Soldati nelle banchine dei porti negli anni Cinquanta a cui chiedeva: cosa vi siete portati da leggere?

La storia si svolge per specularità rovesciate. Noi da diversi anni conosciamo l’immigrazione, siamo l’America per centinaia di migliaia di persone. Lampedusa, o le rive fatali, i centri di prima accoglienza sono la Ellis Island nostrana. I nostri comportamenti sono il riflesso nello specchio scuro di una memoria che rimesta nel corpo della nostra identità. Senza esprimere giudizi o valutazioni “morali”, più semplicemente, l’intenzione  di Antonio Marchetti è quella dell’arte: invitarvi nelle proprie stanze offrendovi una narrazione contemporanea.

In fondo anch’io – scriveva Ennio Flaiano di se stesso – sono un emigrante, un emigrante intellettuale.

 

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A Rimini letteratura in cucina.

Dicembre 17th, 2009

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A Roma, nei piccoli ristoranti-grotticine per turisti di Via del Pellegrino o intorno a quell’isola precaria e in parte ancora felice, che si estende idealmente sino al ghetto, non si parla più come  sorpassati ristoratori ma si fa letteratura. Per l’ordinazione vi si dice: “ora vi narro le cose salienti della giornata” e di seguito la lista del mangiare. Leggere il menu è come leggere un racconto minimalista. Qui a Rimini nella serata del 21 dicembre, in una cantina dal nome affascinante, letterati si incontrano per dialogare su un libro. L’invito che ho ricevuto prevede l’adesione ad una cena successiva che si presenta allettante. Il menu viene presentato, anche qui, come “un succinto racconto”. La cosa a colpirmi è la prima offerta, l’entrèe: L’uovo e la cipolla.

Tutto è riportato alla separazione degli elementi, ricondotti a immagini primarie come in un libro illustrato per bambini. Non si tratta di uovo e cipolla, non identitari e mescolati in un unico piatto (o unica parola) e neppure di uovo con cipolla. Noi non sappiamo come gli elementi saranno giocati tra loro nel piatto su cui mangeremo. Per saperlo, dobbiamo leggere la narrazione, e dunque ordinare quel piatto. In ristoranti con clientele selezionate ci sono menu con brani di Baricco o di Hemingway. Insomma la letteratura si è sempre occupata della cucina, gli stessi termini sono interscambiabili nei reciproci mestieri ma qui è la cucina che si occupa di letteratura, che l’ha ben compresa facendola propria. Tutto dunque andrebbe allora rovesciato. La letteratura dovrebbe essere il menu stesso mentre per la cena si elencano gli ospiti letterari i quali, anche se non trovano nulla da mangiare, si mangiano tra loro per la gioia del pubblico già sazio di geniali e narrativi menu.

Caro Tartaglia

Dicembre 15th, 2009

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Caro Tartaglia,

tu sei la banalità del male, hai fatto male a tutti noi, ci hai fatto fare passi indietro incommensurabili.

Perchè lo hai fatto? Forse perchè i tuoi quadretti luminosi non hanno avuto successo?

Aleggiano leggi speciali, come ai tempi del terrorismo, tra non molto la tua cazzata la pagheremo in molti, e si giustificheranno, con la solita manipolazione dell’imperatore e i suoi lacchè, limitazioni delle libertà individuali nell’esprimere proprie opinioni.

Ci mancava l’idiota, mancava questa figura nella patetica storia di questo quasi ventennio.

E poi, diciamolo, tutto l’apparato protettivo dell’imperatore ha fatto fiasco; mentre i ministri preposti si autoassolvono, impegnati in questioni finedimondo non sono in grado di difendere il loro padrone dall’idiota qualunque, espressione della regressione aggressiva italiana. Su questo idiota gli ex e post fascisti giustificheranno leggi speciali, anche contro questo Journal, di tipo iraniano.

Io ho ferito il cavaliere.

Dicembre 13th, 2009

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Sono stato io a colpirlo in faccia. Non sono cose che si programmano, avverti che sei uscito da te stesso, che hai abbandonato te stesso che consideri spazzatura, puro rifiuto inutile. Ho colpito lui ma in realtà ho colpito mio padre, mio fratello, e anche mia madre, tutte persone che mi hanno ridotto la merda che sono. Di ritorno dall’igiene mentale e dalle solite chiacchiere o di ritorno dal lavoro a settecento euro verso quel tugurio di stanza giù al Naviglio Pavese dopo le ex Cartiere Binda, dove lavorava quel bastardo fascista di mio padre, ho cambiato piano per andare a sentire il cavaliere. Il capo tuonava nella piazza, con il dito sempre puntato (come faceva sempre quella bestia di mio padre) e si è avvicinato muovendo una massa di gente ed energia come Padre Pio e così, tranquillo, gli  ho sbattuto in faccia quella stronzata che mi ritrovano in mano per fargli veramente male. La sua faccia col sangue che ho intravisto quando lui è stato insaccato in macchina era quella che volevo vedesse tutto il mondo. Solo dopo il gesto ho capito che lo sbotto di sangue che gli avevo procurato significava qualcosa di grande, come dicono a Dubai: un gioiello e una icona, due delle tre parole magiche. Ho pensato, mentre mi saltavano addosso, che quell’immagine sarebbe stata uno stimolo ad alcune budella immortali dell’Italia che si piega ad un dito puntato. Quel sangue, il sangue di quell’animale-uomo, finalmente uomo e non più cavaliere, avrebbe acciuffato l’immaginario storico degli italiani. “Immaginario”, la terza parola magica del mondo virtuale di Dubai-Truman Show. Spero mi metteranno in un luogo tranquillo, appena un po’ meglio del tugurio dove vivo.

Al centro dicono che sono intelligente e colto, e che potrei fare tante cose se solo lo volessi.

L’ho fatto.

Memorial Cansano

Dicembre 3rd, 2009

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CENTRO DI DOCUMENTAZIONE DI OCRITICUM

MUSEO DELL’EMIGRAZIONE

 

A cura dell’associazione Culturalmente

 

Nello spazio del centro di Ocriticum l’artista Antonio Marchetti realizzerà una installazione inedita, appositamente progettata per Cansano.

Il progetto installativo accoglie sicuramente le suggestioni del Museo dell’emigrazione – nelle immagini e negli oggetti in esso raccolti in maniera per certi versi struggente –  ma soprattutto le memorie stratificate nei luoghi stessi –  se non nel luogo stesso, Cansano –  in cui si è deciso di realizzarlo.

Ma questo grumo di memoria, che Marchetti traduce in una disseminazione teatrale e scenonografica di vite e di mondi, è esplicitamente coniugato al presente, al nostro giorno dopo giorno ove il nostro sguardo tende sempre di più a non vedere e a distrarsi. L’intenzione di Antonio Marchetti è quella dell’arte: invitarvi nelle proprie stanze offrendovi una propria narrazione contemporanea.

L’imperatore mafioso

Novembre 30th, 2009

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Abbiamo firmato tutte le petizioni e gli appelli possibili. Abbiamo partecipato a tutto e partecipiamo, nel nostro pane quotidiano, ad un possibile/impossibile “risorgimento”. Piuttosto stanchi, impegnati salvificamente e individualmente ad autoproteggerci. Quando i mafiosi pentiti parleranno dell’imperatore d’Italia aggiorneranno le intuizioni e le intelligenze attivate già da tre lustri. Ma il tempo ci trova impreparati. Giovani italiani potrebbero afferrare il testimonio, ma chi li porge a chi? Come si presenta il cervello dei giovani italiani? Mi riferisco a coloro che restano non a quelli che hanno preso, davvero, sul serio l’Europa e vanno via, buon per loro.