La città di Pescara è per Ennio Flaiano il luogo fisico e immaginario dell’infanzia e della giovinezza, di una mitica innocenza – che Roma presto gli farà perdere –, delle dolci estati al mare, delle amicizie consumate nell’oziosa attesa della guerra. Ma è anche il luogo del dolore, quello di un figlio che si sente rifiutato dalla famiglia.Un padre speciale, “una specie di Grandet abruzzese, magnifico e avaro, sensuale e furbo, disonesto e sentimentaleâ€, una “madre piangente†e infine la compagnia dell’inimicizia dei suoi fratelli.Negli anni del distacco e della distanza Pescara crescerà come un blob organico, anticipando incredibilmente i tratti antropologici dell’italiano nuovo: “ credono ancora che la felicità sia nel darsi da fare, sia altrove.Sono fieri delle loro conquiste tecnologiche, tutti hanno una barca a motore, tutti credono nell’arredamentoâ€, scrive Flaiano dei pescaresi. Pescara assumerà nel tempo i tratti viventi del suo aforisma più riuscito.La città è il laboratorio avanzato per la pratica del nuovo, del moderno, dell’incessante movimento verso il futuro.La microstoria si concentra in un fazzoletto di centro storico, corso Manthoné, la strada in cui Flaiano è nato, a pochi metri dalla casa natale di Gabriele D’Annunzio. Ma la microstoria è anche occasione per restituire ad Ennio Flaiano le parole che spesso gli sono state rubate, parole marcate da una “abruzzesità †inconfondibile. Esse serpeggiano nelle sue sceneggiature più famose, da I vitelloni a Otto 1/2.Ma al di là delle parole la città originaria sarà ormai incuneata nei tratti e nei gesti dell’uomo Flaiano, “uomo dolce†e “bambino cattivoâ€.
Archive for the ‘Ascolta il mio cuore città ’ Category
Pescara e Flaiano
venerdì, Dicembre 19th, 2008Era la mia cittÃ
sabato, Agosto 18th, 2007                                                                                                                                 La sinéddoche urbana della città del medio Adriatico era rappresentata dalla Strada Vecchia. Questa via stava davvero per il tutto. Pur avendo un nome la si designava così, con l’aggettivazione vecchio; non storico, che pareva all’epoca termine troppo azzardato e poco praticato, neppure antico, non avendone il pedigree temporale giusto. Era piuttosto strada residuale, resistente per distrazione, vergognosamente appartata e per ora non fatta sedere alla tavola mangereggia della bella compagnia palazzinara ma lasciata in cucina, a mangiare con la servitù. Bastava superare il ponte che già l’altro argine del fiume, mureggiato da folti rovi spinosi, annunciava la povera origine urbana del tutto. Gli argini del fiume erano decisamente impraticabili, a parte per me e Quirino. Un intrico di canne e piante spinose – rovi che laceravano la pelle ma che sapevano ricompensarti con dolcissime more – si estendeva per chilometri sino ad un centinaio di metri dalla foce, ove ormeggiavano i pescherecci ed alcune sopravvissute Paranze.Prima del mare aperto una fila di caseggiati in legno per la pesca, li travucche, arroccate a metà tra gli scogli e i bordi del porto, allungavano verso il mare lunghi artigli con le reti da pesca. Quando queste macchine da pesca erano in riposo diventavano trampolini per i tuffi più audaci.Appena dieci anni prima il fiume era ancora balneabile. Tra morbide insenature venivano lanciate le nere e gonfie camere d’aria dei camion Fiat e ci si tuffava per raggiungerle. Niente eritema solare, niente creme, niente abbronzante, avevamo la pelle serica e nera, stavamo lì sul porto ad arrostire dopo estenuanti e competitivi tuffi ad aspettare il tramonto e i granchi che risalivano sugli scogli, catturati e mangiati sul posto con uno spruzzo di limone.E insieme cantavamo la canzone dei Marcelos Ferial:Cuando calienta el sol a quì en la playasiento tu cuerpo vibrar cerca de mìes tu palpitar…Tu recuerdo…Mi locura…Mi delirio…Me estremezco-o-o-ocuando calienta el sol.Cuando calienta el sol oh oh oh…Cuando calienta el sol sol sol.
Alfonsine
giovedì, Gennaio 25th, 2007Nella casa del prudentissimo Vincenzo Monti, immersa nella bruma impastata tra Ravenna e Ferrara, condita dalle immelanconite e vicine piattezze equoree di Comacchio, come si poteva entrare se non in possesso di piccole chiavi di vetro, un fagottello pieno di utensili leggeri e qualche omaggio – o doverosa memoria – a personali figure che si hanno non tanto “nell’orecchioâ€, ma piuttosto nell’â€immaginazione†e, leopardianamente, “nel cuore in qualche modoâ€? Nella casa dei morti, anche se non ci piacciono, entriamo in letizia e con spirito di intimità come si conviene nella casa che vorremmo viva e, in qualche nostro mestiere, vivere. Anche da stranieri, soprattutto se stranieri.
Via Mazzini ©
martedì, Gennaio 16th, 2007Dio, Patria, Famiglia. Questa la triade che il grande patriota, il Padre dell’Italia, Giuseppe Mazzini, ha cercato di inculcare agli italiani.Dio sempre meno, Patria pochissimo, Famiglia anche troppa.Ogni città italiana ha una strada o una piazza intitolata a Mazzini che deve però vedersela, quasi sempre, con Garibaldi e Cavour. Ma la strada in questione non ha nulla da spartire con memorie di fondazione bensì di rifondazione.Il nome vero è: “Via Mazzini (in arte Mina)â€. Proprio così, Anna Mazzini, la tigre di Cremona, la voce della nostra vita, Le mille bolle blu, Tintarella di luna, Vorrei che fosse amore e La città vuota; tra i pochi viventi ad aver legato il proprio nome ad una strada.Questa del nome è stata la prima brillante iniziativa che il nuovo Assessore alla Cultura Spettacolo e Turismo, Fulvio Cretono, ha voluto firmare in prima persona.Al di là delle motivazioni contenute nella delibera c’erano ragioni più sottili.Esse correvano con la memoria ai suoi anni giovanili, particolarmente creativi, e alla sua faticosissima laurea al DAMS di Bologna. Con la sua consueta arguta ironia non aveva mancato di far partecipe la lobby dei suoi sostenitori circa il gesto performativo di questa sua scelta, la quale – e lo sosteneva con autentica e sincera passione – sintetizzava la sua futura politica culturale: «Non si può aspettare che i grandi personaggi muoiano, bisogna anticiparli, fare storia adesso», questa la filosofia futurista di Cretono. Nell’imprimere sulla targa di travertino solo il cognome – spiegava con occhio furbo – e in basso, tra parentesi e in minuscolo, “in arte Minaâ€, si sarebbe verificata una comunicazione spiazzante, con un effetto sorpresa rispetto al Mazzini storico, ormai relegato alla percezione distratta e convenzionale.Si attribuì anche il record del nome più lungo mai dato ad una strada: Antonio De Curtis Gagliardi Griffo Focus Commeno Principe di Bisanzio, in arte Totò.L’esame migliore che diede, negli indimenticabili anni bolognesi, fu proprio su Totò, con il Professore Ugo Volli.In qualche modo via Mazzini è un’immaginario prolungamento di quel DAMS che Cretono, anche se volesse, non riesce a dimenticare. Strada più larga che lunga, via Mazzini unisce idealmente il piccolo centro storico – al quale Fulvio Cretono ha già riservato progetti creativissimi – al resto della città spiaggereccia e vacanziera.Ma la sequenza tra la fine della strada e la parte storica appariva all’assessore piena di eccessive “superfetazioni†e dunque, in sintonia con l’assessore all’urbanistica che concordò per sfinimento, fece ricollocare un arco medievale, così da ottenere un effetto ready-made, anche questo in ricordo di un suo esame con Renato Barilli su Marcel Duchamp.I numeri 1, 3, 5 di via Mazzini sono occupati da un grande negozio di scarpe per donna il cui arredamento è ispirato ad un obitorio. Pochissimi pezzi esposti nelle vetrine mentre su basamenti di marmo nero africano sono poggiate a coppia le calzature migliori, come sculture o reperti archeologici. All’interno non si vedono scatole e sembra mancare un magazzino.Il nuovo trend inaugurato dal negozio, che si chiama “Il ritorno di Cleopatraâ€, consiste nel fatto che non è la cliente a scegliere ma due magrissime signorine, con il culo a punta, che decidono per lei la calzatura adatta. Uno scanner tridimensionale accoglie il piede nudo della cliente che nel frattempo digita su una tastiera alcuni suoi dati sensibili mentre il computer, aiutato dal segno zodiacale e dall’ascendente, visualizzerà la scarpa perfetta. «Le scarpe sono poche – amano ripetere le signorine – perché rare sono le persone giuste.»Al numero 2 c’è la la Digiuneria. Il locale è piuttosto elegante e ben frequentato, soprattutto nella pausa pranzo, nel tardo pomeriggio e alla sera. Il design interno è risolto quasi tutto con acciaio e cristallo sabbiato. Sui tavolini, o direttamente sul sinuoso piano di servizio, puoi ordinare tanti tipi di acqua e consumare sino a trenta grammi di pane non salato.Le ragazze che vi lavorano, non lasciatevi ingannare, sono sempre molto impegnate e nelle ore di punta bisogna aspettare un pezzo, perché l’una o l’altra è indaffarata al computer, al telefono o a raccontare una storia complicatissima della sera prima.In questo caso vi conviene aspettare, armarvi di robusta pazienza perché costoro passano in una frazione di secondo dal sorriso ad una incazzatura che ve la ricorderete. È questa mancanza di mediazione e di filtro tra le emozioni che fanno delle ragazze che gestiscono la Digiuneria persone speciali.Il nome di questo algido ritrovo è “Il Morso allo Stomacoâ€.La filosofia che queste giovanissime imprenditrici sono riuscite ad affermare consiste nel fatto che proprio nell’attesa, nel differimento, nell’indifferenza, nel prolungamento della fame, nel mettere duramente alla prova l’ospite, che una vera Digiuneria può avere successo. Infatti, altre se ne vanno aprendo in spiaggia.Al numero 7 c’è una piccola ed elegantissima boutique del pane. Si chiama “Pane al Pane niente vinoâ€.Il proprietario è consigliere comunale dei Verdi ed ha impostato una strategia di vendita sulla sobrietà e sulla qualità . Alle dieci del mattino il poco pane, carissimo, è già esaurito e alle undici il negozio è già chiuso. Sulla vetrina campeggia enorme l’indirizzo web: www.panealpanenientevino.com.Al numero 4 c’è l’internet point con tutte le schiene piegate sui computer che si mostrano dalla vetrina. In genere è frequentato da studenti che vengono per intortare. Chattano immaginando tra i presenti chi possa essere quello o quella che confessa tante porcate.Al 5 c’è una copisteria dove i proprietari, marito e moglie, lavorano come pazzi e non riescono mai a parlarsi. Qui gli studenti vengono a prendere le fotocopie e le dispense predisposte per gli esami all’università . Prima in questo locale c’era una libreria ed il vecchio proprietario, avendo notizia che si stavano attivando dei corsi di laurea nella sua città , ristrutturò il negozio e tutto speranzoso fallì.Gli studenti ora arrivano in copisteria con un numero di codice, nome di un corso, nome di un docente, ritirano le fotocopie, vanno a casa a studiare e fanno l’esame. Poi, con l’alloro in testa e il codazzo dei parenti, dopo aver buttato uova sulle belle facciate seicentesche delle case, si va tutti insieme a far festa in Digiuneria, al “Morso allo Stomacoâ€, preparandosi così alla dura vita che li attende.Al numero 6 c’è il signor Lenz, proprietario di questa gastronomia per felini domestici (gatti). Ha anche un minimalista retrobottega ove, su appuntamento, spazzola gatti usando frizioni e tonici da lui brevettati.Dal numero 9 sino al 17 lo spazio è occupato dalla Banca.I vetri specchianti impediscono di vedere all’interno, contrariamente all’open space e al plein air. Uomini e donne di passaggio si soffermano a rimirarsi, per controllare l’andatura, il capello, la pancia, il trucco, sotto lo sguardo obliquo dei funzionari e impiegati della banca che in questo modo non hanno bisogno di guardare i monitor collegati alle telecamere esterne. In questa banca non entra e non esce quasi mai nessuno. Solo i funzionari, nella pausa-colazione, rimangono per quarantacinque minuti in Digiuneria a mangiare e a bere. Gli impiegati restano dentro, avendo allestito una loro digiuneria clandestina ridacchiando delle loro trasgressioni, come mettere gocce di limone nell’acqua o mangiare pizza bianca al rosmarino.Alle 14,15 questi anarchici sono già al lavoro, con un complice sorrisetto residuale post-trasgressivo.La rive gauche della breve via Mazzini si conclude con il design del capello, “Prestami la testaâ€, il negozio di Alfredo junior che fu di suo padre, Alfredo anche lui, il senior, che all’epoca si chiamava il coiffeur. La prima volta qui devi venire con una foto da bambina, una da adolescente e via via seguendo l’età e le tappe significative della tua vita, documentate da foto ove, naturalmente, siano ben visibili i tuoi capelli. Attraverso un’analisi preliminare delle trasformazioni delle acconciature, e del rapporto che avevi con queste, devi seguire un corso di una settimana con un tutor, la Professoressa Evian, e dopo un breve colloquio con l’esperta psico-fashion ti verrà consegnata una card e da quel momento potrai incontrare per la prima volta – emozionata vero? – Alfredo Jr., che saprà metterti la testa a posto.Di fronte, a concludere la rive droite, c’è un centro Unicef, diviso in due ingressi, l’8 e il 10.In una vetrina sono esposti gadget e prodotti artigianali che puoi comprare per contribuire a debellare la fame delle popolazioni di alcune regioni dell’Africa, nell’altra sono esposte fotografie, piccole e grandi, di bambini affamati.Una parte laterale di questa vetrina è data in concessione ad alcune associazioni umanitarie che alternano settimanalmente l’immagine di un ragazzo o una ragazza del Mozambico, accompagnata dai dati anagrafici e il paese o città ove vive, con la richiesta di aiuto a distanza per l’alimentazione o gli studi.Questo fronte stradale però si conclude, per usare le parole di Cretono, “in malo modoâ€.Un buco nero resiste in via Mazzini, uno spazio vuoto occluso da una struttura di ferro sgangherata che lascia intravedere segni di una vecchia combustione, con residui di fuliggine ancora depositati sulle solette di travertino. Pare che tutto sia rimasto così da tempo immemore, o almeno quello che gli abitanti futuristi considerano tale.Le congetture e i pettegolezzi su questo numero civico quasi inesistente sono tanti.La tumefazione di via Mazzini, il dente cariato della bella strada, non si sa perché, sta ancora lì.