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In una delle nostre conversazioni mentre preparavamo la mostra riminese per le celebrazioni dell’anno galileiano (2009), Antonio Marchetti lanciò l’idea di un’altra mostra, da allestire nelle sale antiche della Biblioteca Gambalunga, intitolata “Come ho dipinto alcuni miei libri”. Col titolo intendeva richiamare, con minimo adattamento, lo scritterello di Raymond Roussel Comment j’ai écrit certains de mes livres, dove l’autore svelava post mortem la natura artificiale e combinatoria di certe sue opere. Marchetti e gli amici Maurizio Giuseppucci e Franco Pozzi avrebbero esposto le loro creazioni artistiche intorno a opere e autori risultati importanti nella formazione loro e della loro generazione.
Il progetto, discusso con la Direzione, è subito piaciuto ed è stato accolto tra le iniziative del nostro Istituto. Era infatti in linea con l’attività di promozione del libro e della lettura che la Gambalunga è andata sviluppando e diversificando negli ultimi anni. Come pure costituiva un’ulteriore incursione nel mondo delle arti visive ambientata nel cuore antico della Biblioteca, dopo le felici esperienze della mostra fotografica sulla colonia Novarese dell’artista tedesca Andrea Frank (2001) e dell’esposizione delle tele di Miria Malandri dedicate all’immagine delle biblioteche e dei bibliotecari nei film (2001).
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In seguito la compagnia si è allargata con l’ingresso di Leonardo Sonnoli, autore del progetto grafico del catalogo della mostra, e di Annamaria Bernucci, critica d’arte. E a poco a poco, in una sorta di operazione maieutica collettiva sotto la regia di Marchetti, si sono precisati i temi su cui gli artisti avrebbero lavorato, sono stati assegnati gli spazi espositivi distinguendone uno comune (sala del ‘700) e uno personale (sale del ‘600), e si è deciso di accostare alle loro opere materiali della Gambalunga in base a relazioni di tipo formale o concettuale. Si è venuta così definendo una mostra che non trovasse nelle sale antiche solo uno sfondo di particolare suggestione, ma riuscisse a far dialogare, in una messa in scena ben orchestrata, le creazioni degli artisti intorno a libri e talora in forma di libri con i volumi circostanti, colti nella loro duplice natura di oggetti materiali e prodotti intellettuali. Questo rimbalzare tra epoche diverse avrebbe anche suggerito il senso di continuità – sia pure una continuità tutt’altro che lineare – della nostra cultura, quasi a significare che in fondo nulla è più antico del moderno, inteso come momento di confluenza e sedimentazione di elaborazioni, riflessioni, teorizzazioni, negazioni e riabilitazioni operate dall’uomo nel corso del tempo, e quindi come punto di approdo di una lunga tradizione.
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Così le nove scatole dello scompleto alfabeto di Marchetti, ciascuna depositaria di un gioco linguistico e figurato ricco di suggestioni e significati, sono state accostate a tre raffinate raccoltine di iniziali figurate e ornate, grottesche e monogrammi attribuite al bolognese Rodomonte Giordi, maestro “d’abaco†a Faenza, a suo tempo utilizzate per la riproduzione a spolvero (Sc-Ms. 1153-1155, inizi XVII secolo). Ai taccuini dedicati dal medesimo artista agli autori prediletti del ‘900 e posti a girotondo intorno all’imponente badalone nella terza sala seicentesca, sono stati accompagnati volumi che toccano alcuni dei temi suggeriti dai suoi autori: dalla Relazione del contagio stato in Firenze L’Anno 1630. e 1633. Coll’aggiunta del Catalogo di tutte le pestilenze più celebri … (Firenze 1714) alle Opera minora anatomica di Albrecht von Haller (Losanna 1763-1768), e a I discorsi ne i sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale di Pietro Andrea Mattioli (Venezia 1559).
Giuseppucci ha legato il suo album, elegante e inquietante raccolta di immagini di mosche carnarie e brani da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, a una tavola con gigantesca pulce (essa pure succhiatrice di sangue) del sesto volume delle Planches (Lucca 1770) di quel compendio universale dello scibile umano che è l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, per molti versi manifesto dell’Illuminismo. Associa invece la piccola foto incorniciata raffigurante una massa di libri su esile tavolino con gomma a forma di teschio sovrapposta, a una citazione da Il libro della sovversione non sospetta di Edmond Jabès, a un Indice dei libri proibiti (Roma 1596) e a un testo espurgato del De institutione oratoria di Quintiliano con commento (Venezia 1567). Con mirabile sintesi, Giuseppucci spalanca un universo di significati ben presenti a chi pratica i “mestieri del libro”: la cultura occidentale ha nel libro la forma privilegiata di espressione e trasmissione; i libri sono conservati in quei grandi depositi organizzati che sono le biblioteche, che ne assicurano la fruizione pubblica e la sopravvivenza nel tempo; la biblioteca è quindi il luogo della memoria, passata e presente, memoria da trasmettere oppure da occultare e distruggere. A un sentire comune che considera libro e biblioteca presìdi di civiltà si oppone infatti ogni forma di integralismo, sia laico sia religioso, che punta sempre e comunque al rigido controllo della produzione editoriale, cedendo talora – come insegna la storia anche recente – alla tentazione dei roghi di libri: il libro, come simbolo della libertà di opinione e di espressione, va annientato. Ma il libro può anche essere più banalmente ma altrettanto efficacemente insidiato dall’azione silenziosa e inesorabile di insetti e microrganismi, qui rappresentati dal lepisma saccharina, meglio noto come pesciolino d’argento, che si muove febbrilmente su un minuscolo video dentro un cassettino con schede della libreria seicentesca.
Franco Pozzi propone una delle sue suggestive installazione di farfalle in chiave di discreto omaggio a Piero Meldini, già bibliotecario della Gambalunga, che nel suo romanzo L’antidoto della malinconia racconta il prodigio di un immane sciame di farfalle che compare sulla facciata della cattedrale, lasciando dietro di sé una pozza di sangue. L’intenzione dell’artista è suggerita dall’attigua esposizione del terzo tomo dei Diari di Giacomo Antonio Pedroni (Sc-Ms. 211), fonte dell’episodio avvenuto a Rimini nel giugno 1623, e dell’Antidoto de’ malinconici di Giuseppe Malatesta Garuffi, bibliotecario della Gambalunga alla fine del Seicento, fonte del titolo di Meldini. Ai suoi originali disegni a pochoir su vetro montato a cassetta, realizzati schermando la luce con la polvere sedimentata e leggibili se colpiti da fonte luminosa, Pozzi lega con accostamento quanto mai calzante l’Ars magna Lucis et Umbrae (Roma 1646) del genio enciclopedico Athanasius Kircher, un trattato sulla luce in relazione dialettica con l’oscurità .
A conclusione di questa rapida rassegna della mostra svolta dalla parte dei libri, non posso non sottolineare che Marchetti, Giuseppucci e Pozzi, in dialogo costante con la scrivente, hanno saputo trarre dalle raccolte della Gambalunga pezzi capaci di assecondare ed esaltare le loro infinite sollecitazioni.
Paola Delbianco *
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* Testo tratto dal catalogo della mostra “Come ho dipinto alcuni miei libri” – Comment j’ai écrit certaines de mes livres (Raymond Roussel) presso le sale antiche della Biblioteca Gambalunga di Rimini. 18 novembre/17 dicembre 2011.
Nel catalogo testi di Piero Meldini, Annamaria Bernucci, Massimo Cacciari. Photo di Solitro e Casadio.