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Sino a qualche anno fa, la parola “pensione” per me rappresentava qualcosa di lontano, e persino disdicevole. Devo ammettere che a questa mia avversione generazionale sul termine “pensionato”  contrapponevo, quasi ideologicamente, illusori campi di battaglia e bandiere etiche da piantare nella terra di nessuno. L’ideologia, come la fede, crolla di fronte alla verità . Da anni non ho più nulla da dire in proposito.
Colleghi, ancor giovani, anno dopo anno, recitavano il mantra: “Non vedo l’ora di andare in pensione”. Non mi piacevano.
Potete immaginare, con questa quotidiana contabilità , quale apporto positivo potevano dare al lavoro ed alla comunità (cose in cui ancora credevo), con tale attegiamento dimissionario, simili persone. Erano vincenti, furbi, opportunisti. Da destra e sinistra uniti per fottere lo Stato, uniti anche ideologicamente contro lo Stato.
Era appena ieri, cari moralisti etico-fighettini di sinistra Fotti & Magna!
Così, con 16-18 anni contributivi prendono ora  una pensione da oltre vent’anni, e tra dieci il loro mensile supererà oltre tre volte ciò che hanno versato. Se si parla oggi di aspettativa di vita per loro sarà di anno in anno una magnificenza. Per altri, per una generazione di mezzo (tolta di mezzo?), che si è data da fare a vent’anni, colpita da riforme ansiogene, ci sono aspettative di morte.
In questo Paese sconnesso e paradossale ci sono persone che con la sola distanza anagrafica di 5 anni vivono mondi diversi. Un cinquantenne pensionato siede comodamente al bar insieme ad un sessantenne che andrà in pensione tra cinque anni. La pensione del primo è stata rivalutata; l’altro, quando ci andrà , vedrà la sospensione di un passaggio contrattuale ed il congelamento degli scatti di anzianità . Questa è l’Italia, un Paese affetto da sconnesione psichica, un Paese crudele ove le diseguaglianze convivono nello stesso bar. Questo governo rappresenta in pieno, raggrumandone le malattie storiche, questa patologia genetica dell’iniquità .
Ma l’idea di pensione non può essere ridotta al solo esercizio di contabilità .
Al termine “pensione” preferirei “messa a riposo”. Riposo inteso come merito di una vita attiva, che con il riposo certo non si interromperebbe ma potrebbe indirizzarsi ad altre cose vitali (e contributive). Una vita, degna di essere vissuta, dovrebbe essere così ripartita: un quarto tra infanzia ed adolescenza, due quarti di lavoro, un quarto di vuoto. Un vuoto libero e pagato.
Gli ideologi dell’aspettativa di vita, angeli della morte, becchini (che al contempo tagliano sulla sanità e servizi per spingerti a morire e risparmiare), fanno calcoli come potrebbe farli un demente. Si potrebbe aggiungere ( e la cosiddetta opposizione non arriverà mai a questo…) qualche salvaguardia sulla qualità della vita della persona, sul tempo-vita che non ha prezzo; su quel tempo “liberato” dal lavoro che annuncia una vita ripensata.
Ma la “vita activa” o la “nuda vita”, qui non sono contemplate.
Di conseguenza ci ritroviamo in una trappola paradossale che ci siamo costruiti.
Da un lato la disoccupazione e l’enorme difficoltà di entrare nel mercato del lavoro (ma anche coloro che non “vogliono” lavorare), dall’altro il Gulag del lavoro, il lavoro imposto, i “prigionieri” del lavoro, che non possono lasciarlo, pur avendone maturato i diritti.
L’Italia è questa:  lavoro coatto per una generazione, porte chiuse per la nuova. Ma se la nuova intende comportarsi ancora così, “bamboccioni” nella via di Damasco, non piangerò domani per la loro povertà .
Pare che la vita non abbia valore: non la vita dell’uomo distribuita in anni faticosi, non la vita vissuta. Il demone dell’ideologia cattolica  protegge un embrione, ma non l’uomo fatto…
Occorrono oggi disubbidienze personali, individuali; microribellioni e destabilizzazioni in piccoli ambiti, spostamenti minimi. Oltre lo sciopero, obsoleto. È il tempo dell’individualità , del soggetto. Tanti piccoli “no”, a costi zero.
Anche se i costi psicologici per molti, nel dire un semplice no, sono insormontabili, abituati al gregge.