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È stato allestito un deposito al Palazzo della Triennale a Milano, una raccolta di oggetti di un tempo che abbiamo alle spalle (o sulle spalle), raccolti e amorevolmente spolverati e lucidati da Alessandro Mendini. Ci sono anche “nuove cose”, da scoprire. Questi oggetti sono: “quali cose siamo”.
In questo venticello della malinconia ci viene tuttavia incontro, nella sapiente mescolanza del Mendini, un quadro di Alberto Savinio del 1930, “L’isola dei giocattoli”. Inevitabilmente, in questo piano sequenza (senza montaggio), quasi circolare della mostra ove gli oggetti sono mescolati lasciando a noi la “storia”, affaticandoci pur piacevolmente in una respirazione bocca a bocca oggetto per oggetto, “inevitabilmente”, ripetiamo, l'”Isola dei giocattoli” finisce per essere il paradigma, o la sineddoche, del deposito- dispositivo.
Una mostra che avrebbe potuto allestire Michel Houellebecq, perchè no. Almeno sarebbe stata più crudele, scorretta, e meno “sospesa”.
Mendini e la cura del suo allestimento mi hanno ricordato Cino, il personaggio del film di Marco Ferreri “Il seme dell’uomo”, che collezionava-salvava piccole cose prodotte dall’uomo.
Attraversiamo Parco Sempione tra cani e sportivi di ogni età avvicinandoci a via Dante, in orario di “pausa”, e già tutto brulica di “uomini statistici” o “uomini timbro”, come intitolava le sue figure il pittore Renato Mambor nei primi anni dei Sessanta italiani; funzionari, managers, stagisti, tutti in blu o nero, antracite o qualche grigio chiaro primaverile. Meno numerosi di appena uno o due anni fa, ed i completi sono meno eleganti. Si riciclano quelli dell’anno passato. A tutto ciò si accompagna prudenza (psicologica, metereologica, economica?) e si indossano sopra i completi i gilet antivento separati dal soprabito o dai cappotti ma, essendo più corti della giacca spesso a due spacchi, gli uomini appaiono figure in gonnellino. Questa prudenza è fatta moda, e gli uomini timbrici hanno qualcosa di femminile, pur non sculettando.
Si cerca di far diventare trendy sostituire il pasto con un gelato (mantenersi in forma?) da soli o in compagnia camminando dinoccolati seguendo un modello mimetico originario, ma non sappiamo quale, o consumare un panino mangiato in piedi vicino al cassonetto dei rifiuti per far sembrare che si era lì lì per gettare ecologicamente un cartoccio.
Insomma un pochino ci si vergogna della crisi e si tira avanti. C’è poco da scherzare, qui è nuda vita.
Ma ci pensano i negozi di via Dante: due abiti, due camicie, due cravatte a 389 euro. Per il necessario ricambio delle camicie il negozio di fronte ne offre quattro a 99 euro. Se prendi due abiti li puoi spezzare in modo che ne hai quattro, ed hai sei camicie. Con meno di 500 euro sei elegante e variabile se ci sai fare.
Per la festa del primo maggio c’è stato dibattito. I commercianti (via Montenapoleone docet) terrebbero, con una liberatoria del comune, i negozi aperti che catturerebbero i turisti (i soliti giapponesi?).
I commercianti sono “resistenti” anche circa il progetto di Abbado e Piano di “forestare” tra il Castello-via Dante-Cordusio, perché gli alberi oscurerebbero le loro insegne.
Ma il mio amico Marco Rindi, gestore della storica “Taberna di San Tommaso” (andateci quando potete, la sera soprattutto, a due centimetri dal “Piccolo”) taglia corto sulla questione: “detassare le insegne, così son tutti contenti”.
Semplice, pragmatico, intelligente. Tre termini che in queste latitudini difettano sempre di più.
Per concludere malinconia sparita, o vissuta nelle forme “saviniane”, davanti i quadri di Egon Schiele a Palazzo Reale.
A Milano ci sono ancora, a quanto pare, “Isole dei giocattoli”.
Ma dobbiamo costruircele tutte da soli.