«Architectum elegantem omnis malitiæ». Che lo si traduca con “malizia†o con “cattiveriaâ€, la frase pronunciata da Momo nell’omonimo, straordinario libello di Leon Battista Alberti, nasconde senz’altro «l’autoironia con la quale Alberti rappresenta il proprio ruolo di esperto e di divulgatore di architettura» (Massimo Bulgarelli). Ma non solo. La proposizione racchiude anche la consapevolezza di Battista di essere l’unico, fra gli architetti dell’epoca, a poter coniugare conoscenza dell’antico e nuova progettualità (come dirà nei Profugiorum ad ærumna libri III, quella «faccenda da niuno de’ buoni antiqui prima attinta»).
In questo esercizio progettuale, l’Alberti utilizza due diversi linguaggi – così come fa quando scrive i suoi testi –: il sermo latino, colto, all’antica, ed il sermo volgare, legato al genius locidella città in cui deve realizzare le sue architetture “sperimentaliâ€.
Che presentano diversi livelli di comprensione a seconda del pubblico che le guarderà . E se tutti sono dotati della capacità di cogliere cosa è bello e cosa non lo è, pochi però sono in grado di comprendere in pieno il significato profondo delle sue architetture. L’architettura albertiana, inoltre, è “artificioâ€, se confrontata con la natura – grande tema albertiano, quello del rapporto tra le due –, ma artificio necessario, perché anche in natura, spesso, non si ritrova la perfezione. Ma per ottenere questa venustas occorre usare dei “trucchi†(gli “ornamentiâ€), che rendono l’architettura una “maschera†indispensabile all’uomo, finché è in vita. Ogni maschera, infatti, cadrà , soltanto una volta giunti alle rive d’Acheronte (come afferma Caronte nel Momus). Tutto ciò sarà mostrato attraverso l’esemplificazione di tre opere dell’Alberti: il tempio Malatestiano, palazzo Rucellai e Santa Maria Novella.(Alberto Giorgio Cassani)