Morti immobili in un letto, con il vestito migliore, puliti e lavati, con le scarpe lucide, ben pettinati e profumati al limite della soglia ancora umana.
Tutti immersi nella stessa penombra della veglia funebre, circondati dai fiori, dalle corone e dal cordoglio sussurrato, trattenuti prima che la loro anima abbandoni i loro corpi, come se si conoscesse il tempo della definitiva separazione.
I toni si smorzano, gli oggetti riposano, la coperta dei morti si distende sulla casa.
Essi sono guardati ma non possono restiturci lo sguardo.
Un’insopportabile e crudele passività spezza la consueta reciprocità degli sguardi e getta i loro corpi nel campo dell’esposizione indifesa.
Possiamo scrutare i loro difetti o la loro involontaria espressione che in quel momento non è delle migliori, e quasi non crediamo a quella immobilità e non-pensosità .
Ho sempre creduto, durante le lunghe veglie funebri, che essi ci scrutano molto e più di quanto facessero in vita, ma in un tempo breve, ed essi, ora, sono più benevoli.
La nonna non mi rimprovera per una risata inopportuna e Guido non ha nulla da contestarmi. Essi sono sicuramente più buoni e non è vero che siano immobili.
Se fisso attentamente i loro volti vedo che un sopracciglio si muove, che la bocca contratta si distende in un ironico sorriso e che la mano che ho baciato ha un fremito, non è allo stesso posto in cui ora l’ho lasciata.
Tra le labbra nere un filo rosso anima ancora una possibilità di parola, pacata, fatta di altra sostanza sonora e con altre finalità acustiche.
Dall’angolo della stanza in cui mi sono appostato vedo la forza stupefacente che questi morti emanano ora, cosa riescono a combinare tra la gente che è venuta a far loro visita.
Cugini si conoscono per la prima volta, parenti che credevamo bruttissimi sono diventati bellissimi, quelli poveri sono venuti con l’ultimo modello Alfa, quelli alti ora sono piccoletti, quelli antipatici non smettono di accarezzarmi, una ragazza-parente sconosciuta ha un culo bellissimo, quei fratelli che non si parlavano più per via di un’eredità si sono appartati in cucina e stanno soavemente conversando, appianando, accordando, quasi si abbracciano; si intrecciano lunghi racconti distribuiti tra varie stanze, saghe familiari e anà mnesi a me sconosciute vengono tracciate al capezzale del morto, una sfrenata voglia di chiamare il morto per nome ed intimargli di alzarsi si impadronisce di me.
Si comincia a mangiare qualcosa, si tira fuori il vino e qualche liquore, si accenna ad un sorriso, si fa qualche battuta, si ride di cuore e poi ci si vergogna e ci si rinsacca nel lutto ma non è come prima, un’elettrica vitalità serpeggia tra i vivi.