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I nomi si fanno importanti e surreali quando c’è una deprivazione della vita.
Il mito e l’altrove sono presenti nelle vite disturbate, forse povere, mentre la semplicità e l’essenziale lo sono nell’opulenza e nella sicurezza. Il meno è della ricchezza mentre il più è della povertà .
Il precario lancia con il nome di persona un proiettile verso un destino ed un futuro migliori, di risarcimento: Vanja, Heros, Tatiana, Joanna, Paloma, Henry, Susy, David, Gioele, la Bibbia insieme a un cantante che rivive nei figli, un personaggio di una telenovela che si riattualizzerà per sempre, un nome che vuole essere nomos, un gesto battesimale poco impegnativo ma utile a circoscrivere la propria individualità o il proprio territorio, che spesso sappiamo inesistente e mancato, per reagire all’indifferenziato e all’anonimato a cui tutti oggi sembrano opporsi; un segno augurale che, non so che farci, mi deprime, perché si va a pescare proprio nell’assenza e nel suo clone sostitutivo disperato.
Giovani madri proiettano ombre di vite mancate nelle loro figlie; ancor giovani padri prolungano altrettante esistenze irrisolte in una genìa che dovrà rendere conto del proprio nome, troppo forte, troppo impegnativo, e che in qualche caso li marcherà nella loro anonima vita.
Nomi di figli grotteschi e tragici insieme, perché incolpevoli rispetto all’onomastico azzardato con il quale vengono designati sin dal loro mattino. E se sapessero, questi spericolati e creativi inventori di futuro e di formule magiche, cosa nascondono i labirinti etimologici di quel nome così sfacciatamente e felicemente comunicato all’anagrafe, forse ne sarebbero agghiacciati.
Quando le cronache sciorinano i loro funerei bollettini di morte, io vengo trafitto da questi nomi di ragazzi condannati dall’azzardo di un nome, al quale non potevano corrispondere.
Da un genuino nome di un nonno contadino si passa ai nipoti che si chiamano inverosimilmente Dionne, Ingrid, Didier; deflorati dalla lingua, che li proietta in un mondo nuovo, indefinito, volubile e precario.