Nei primi giorni di soggiorno di dieci anni fa, in questo rifugio nella campagna toscana, Dolores attuò subito la sua tecnica di sparizione proiettandosi nella conoscenza dell’ambiente e dei vicini, come una ragazza che scappa di casa dopo averne conquistata una, come se accoglienza e fuga facessero parte dello stesso sistema spazio-esistenziale.
D’altronde, Dolores era persino capace di scomparire a casa sua, nel giardino, nelle mura di casa di sua madre e, quando mi raggiungeva nel mio monolocale al quindicesimo piano, ripeteva il solito scherzo, dopo aver suonato il campanello: trovava reconditi ed inesistenti anfratti nel pianerottolo per sparire per qualche secondo. E poi, puff! Eccola riapparire, con il sorriso beffardo e infantilmente canagliesco che annunciava quei deliziosi pomeriggi o serate in cui facevamo l’amore, con il piacere nuovo e intatto come la prima volta.
La sua presenza era sempre annunciata da un’assenza, un folletto bizzarro che ti canticchia: con i tuoi occhi rossi rossi, che faresti se non ci fossi?
Dolores, come sempre, è stata l’avanguardia anche in questo luogo. Il giorno dopo sapeva tutto degli anziani vicini, di Franca, di suo marito Alberto e di Sandro, il loro amico di sempre.
Ma della vita di Sandro catturai io qualcosa di intimo e originale che obiettivamente sfuggiva agli orizzonti antropologici di Dolores.
La sua vecchia Renault 4. La mitica R4, famosa quanto la due cavalli ma con un pensiero in più; fu la mia auto di gioventù.
Quest’auto mi ha permesso di viaggiare e assaggiare l’Europa, mi ha fatto vivere, dormire, fare l’amore, esperire la solitudine notturna nel girare a vuoto nella depressiva città in cui sono nato, è stata casa nelle sue capacità di trasformarsi e svuotarsi così come è stata compagna di traslochi allargandosi all’occorrenza accogliendo libri e mobili.
Era la macchina-segno francese quando Roland Barthes ancora balbettava, era sospesa da terra più delle altre e poteva andare ovunque, era campagnola e montanara e, tirata a lucido, non ti faceva sfigurare quando la parcheggiavi davanti ad un dancing o ad una festa nelle ville adriatiche delle mie terre.
Era bianca o rossa, di un rosso tutto suo, appena opaco, un rosso patinato dal tempo già da nuova. La mia era bianca, quella di Sandro di un beige pallido, bello anch’esso.
I sedili erano in tubolare con similpelle tirata con molle metalliche. Anatomicamente sembravano improbabili eppure si arrivava tranquillamente a Istambul senza mal di schiena.
Il cambio marcia era divertente e muscolare, la postura nella guida era altera e sciolta a seconda dello stato d’animo. Alcune persone ti capivano, o ti catalogavano, da questa macchina.
Sandro aveva condiviso le mie considerazioni e si autoassolse ormai definitivamente da tutte le critiche saccenti e consumistiche intorno alla sua vecchia Renault che i suoi amici fiorentini non gli risparmiavano; lui la curava come una bambina.
Tutto questo suggellò il rispetto reciproco facendo di noi fratelli d’auto
Ma poi, dopo questo sprazzo di moderata esaltazione, pensai che da giovani si ha meno mal di schiena e che viaggiare in cinque in una macchina così, spinellandosi qualche volta, molto probabilmente, più che la benzina ad alimentarla erano l’utopia e l’avventura.
In effetti, oggi, allo stesso modo sembrano comportarsi questi cultori superstiti dei Miti (falsi) degli anni Sessanta che dimenticano l’enunciato principale che dovrebbe fare da anticamera ai loro ricordi: eravamo giovani!
Memoria e Storia, qualche volta, andrebbero separati.
Non potevano definirsi vecchi questi desueti “fricchettoni†non sincronici con il tempo.