Parlare di Paolo Di Pietro vuol dire parlare di una famiglia, di tanti fratelli, accomunati da un fondo comune di intelligenza, acutezza, e grande spirito critico, estesi in zone persino eccessive di lucidità ; “dispendioâ€, spreco analitico che va a costituire quella Pescara parallela e umbratile poco visibile, ma molto profonda e fondativa.
Anche se, attualmente, i Di Pietro rappresentano una diaspora geografica, sempre pescaresi restano.
I Di Pietro sono accomunati anche da una “râ€, “mosciaâ€, che arrota le parole, affila i pensieri, stilizza la dialettica.
Sono forse memorie francesi, o italianamente mediate da antichi itinerari parmensi, non mi è dato per ora sapere ma mi cullo nell’immaginazione e mi piace pensarla così.
Paolo Di Pietro non ha solo rappresentato la condivisione dell’architettura e del design, dell’arte e della critica d’arte e architettonica, delle battaglie sindacali e politiche nella sinistra, ma anche della psicoanalisi, della psichiatria e dell’antipsichiatria, cercando insieme in queste discipline una qualche risposta a tutta una serie di complessità del vivere quotidiano.
Laing, Cooper (l’ex sfascia-famiglie), Basaglia, Schatzman, Bettelheim, Foucault, circolavano regolarmente a cena o sul tavolo da disegno.
Il mondo relazionale intorno a Di Pietro riesce ad armonizzarsi anche nelle inevitabili ed epocali crisi familiari, ove vengono predisposte nuove ricomposizioni; equilibrio e civiltà hanno sempre la meglio, mentre la circolazione delle eventuali caselle vuote si sostanziano in nuove mappe esistenziali, rimesse continuamente in gioco sotto il segno dell’autenticità .
Professione e vita, deontologia professionale ed etica dell’esistenza, in Paolo Di Pietro, sono inscindibili.
Per questo la sua migliore opera risiede nella sua dimora.
Un architetto che si fa un autoritratto architettonico (come un odierno e reincarnato Adolf Loos). Come farebbe un pittore, imprimendo nella tela il proprio volto.